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Ha ancora senso parlare di arte?
La domanda potrà sembrare sterile e oziosa, ma, a ben pensarci, riuscire a dare un giudizio condivisibile su ciò che può essere considerato artistico, discernendo da ciò che non può esserlo, sembra ormai uno sforzo intellettuale che abita forse qualche vecchio salotto di una vecchia intellighenzia in via d’estinzione e sempre meno le pagine di qualche giornale o rivista di ampia diffusione.
La quantità di “oggetti” artistici prodotti oggi supera ogni capacità di tenersi aggiornati, tanto che esperienze marginali come quella di “altremusiche.it” non sono che la testimonianza della punta dell’iceberg di un mondo culturale in costante eutrofizzazione. La tecnologia alla portata di tutti, così come il più diffuso benessere nelle società occidentali, hanno determinato una maggiore attenzione nei confronti della creatività e, conseguentemente, nei confronti anche della mercificazione della stessa.
Il problema del critico, quando questo vuole mantenere un’autonomia di giudizio libera dai vicoli promozionali, diventa un problema deontologico, che può essere risolto limitandosi alla semplice descrizione di quello che passa attraverso le nostre orecchie, senza dover per forza eccedere nelle esaltazioni – quando è chiaro a tutti che non siamo circondati da tanti Bach o Michelangelo (ma nemmeno da tanti Bartók o Duchamp, e nemmeno da tanti Cage o Cocteau…). Naturalmente è atteggiamento costruttivo anche esimersi dal minimizzare ogni commisurata portata artistica. Il critico, quindi, dovrebbe essere semplicemente una persona a cui vengono sottoposti un certo numero di materiali musicali, e che quindi può essere messo nelle condizioni di analizzare, ordinare, classificare ed eventualmente consigliare. Fare critica dovrebbe significare proprio questo, ovvero poter discernere materiali per poter comunicare agli altri le proprie conclusioni (personali e non definitive), che possono (ma non per forza devono) diventare utili a chi vuol accostarsi a quei materiali, che il più delle volte vengono messi in commercio secondo dinamiche che ben poco hanno a che fare con ogni tipo di considerazione estetica.
Non ci si vuol esimere dalle responsabilità che un sistema produttivo, come quello che ci circonda, impone. Credo che si possa sostenere senza ipocrisia che tutte le attività che vengono organizzate attorno a quella che vorrebbe essere un’onesta attività di critica musicale, servono a dare credibilità e indipendenza all’attività stessa. Per fare ciò occorre fare un gioco leale, senza imposture e pressioni esterne.
Ecco allora ritornare alla mente la domanda iniziale: ma l’arte che fine ha fatto?
Personalmente credo che la si possa trovare sotto molte pietre. Non è un frutto raro e non è prescritto da nessuno che si debba per forza trovarlo all’interno di un CD o di un’esibizione dal vivo. Come molti sanno la musica è un lavoro di routine, come tanti altri: si fanno CD come si potrebbero fare computer o porta-asciugamani. L’ipertrofia del mercato discografico induce a porci oggettivamente l’interrogativo se tutto quello che viene prodotto ha un valore artistico insostituibile oppure, al contrario, è intercambiabile come il porta-asciugamani di casa.
Se è vero come dice Jean-Jacques Nattiez che “l’opera musicale non è costituita soltanto da ciò che non molto tempo fa si chiamava testo, (…) ma anche dai processi che lo hanno generato (gli atti compositivi) e da quelli che l’opera determina (gli atti interpretativi e percettivi)”, allora, di fronte alla straripante produzione/promozione del mercato discografico (piccole etichette e majors, non fa differenza) occorre, in quanto fruitori di prodotti artistici, porre la questione fondamentale secondo cui ogni opera artistica esiste in quanto NOI la fruiamo, ovvero, secondo le parole di Nattiez, la percepiamo e la interpretiamo.
Senza voler spaventare chi compone e produce musica, vogliamo qui rivendicare lo spazio mentale lasciato alla riflessione sull’opera d’arte, la quale, è giusto ribadirlo, può vivere solo in quanto esiste tale spazio di riflessione, altrimenti è solamente merce e prodotto di consumo, paradossalmente necessario quanto un porta-asciugamani. Questa idea, per quanto banale, dovrebbe diventare più chiara a chi considera noi fruitori come dei meri clienti, ovvero semplici utenti di un servizio di assistenza che soddisfa, in senso quantitativo, il nutrimento della nostra anima, ma senza nemmeno che ci venga posta la domanda: “ne vuoi ancora?”.
gennaio 2003 © altremusiche.it / Michele Coralli
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