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Il rock progressivo degli anni 2000 segue diligentemente impostazioni dettate da ricette che nel migliore dei casi si dimostrano amalgami perfetti, studiati cioè nella più intima scelta di ogni ingrediente e nel suo corretto accostamento, nel peggiore mera dimostrazione stilistica che reitera all’infinito un approccio di maniera. Pur nella loro buonafede molti giovani gruppi prog di oggi rendono troppo espliciti i modelli a cui si ispirano e questo sembra essere il peggior limite di musiche che sotto il profilo esecutivo superano di gran lunga quei modelli. I musicisiti progressive di oggi, in altre parole, sono belli senz’anima, cioè straordinari esecutori. ma scarsi inventori di nuovi linguaggi, ottimi programmatori di suoni, nonché commuoventi restauratori di vintage, ma poco industriosi sul fronte dell’innovazione timbrica. Sembra che in questa fase storica, pur positivamente segnata da una profonda riscoperta di generi e stili, continui a rimanere un po’ troppo succube del passato e ogni nuova proposta fatica a non farci i conti in maniera anche troppo sproporzionata.
La ricetta che gli statunitensi Inner Ear Brigade mettono in campo ha quattro ingredienti principali: intellegibilità della struttura, gusto per la melodia, equilibrio timbrico e rispetto della buona condotta. In altre parole un’ottima capacità nel rimanere all’interno di un tracciato perfettamente omogeneo nelle coloriture, ma forse anche troppo evocativo sul piano del know-how progressivo. Per essere più chiari prendete Slapp Happy, Henry Cow, Caravan e Reinassance, mescolate con cura e mettete a fuoco lento. Aggiungete le solite spezie a base di Fender Rhodes, Minimoog, Mellotron e sezioni fiati “elastic jazz”. Servite con accuratezza, dato che trattasi sempre di pietanza slow food.
In fin dei conti anche questo ensemble di San Francisco, al pari altri gruppi neo-prog globalizzati, non ha nulla da invidiare sul piano esecutivo e compositivo a quei gloriosi modelli, pur evidenziando una certa latitanza sul fronte della presa di distanza con il passato. Impressionate, tanto per dire, la contiguità espressiva della cantante Melody Ferris con la Dagmar Krause che infiorettava quel capolavoro fanciullesco che era l’ “Acnalbasac Noom” di blegvadiana memoria. Ma se da Inner Ear Brigade si può giungere a “In The Land of Grey and Pink” perché no? Se il mezzo può essere utile al raffinato ascoltatore di nuova generazione ben venga anche qualche manierismo.
Disco prog dell’anno? Potrebbe essere. Certamente uno dei migliori tra quelli passati recentemente sui nostri lettori cd.
2012 © altremusiche.it
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