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Quando il “fenomeno” Bittová fece la sua apparizione in una serie di festival europei più avantgarde alla metà degli anni ’80, la violinista e cantante ceca, nonostante il suo strumento non sia mai stato contiguo a quell’estetica, si avvicinava a un’idea post-moderna del punk, con tutta quella carica e quella curiosità che poteva suscitare un’artista vivacemente graffiante che veniva da un Est tutto da scoprire. Un lavoro in particolare ne aveva alimentato un piccolo mito sotterraneo: “Svatba”, un disco – registrato assieme al percussionista Pavel Fajt – carico di propensioni quasi sovversiva rispetto al luogo in cui era nato, quindi, appunto, un disco punk. Molti si innamorano di quella musica che riusciva a portare linfa a una scena out che viviva momenti di spaesamento. Poi, il contatto con l’Occidente iniziò ad addolcire il primo tratto spigoloso della musicista in maniera inversamente proporzionale al guadagno di una posizione nel calderone della contaminazione di maggior successo.
Arriva, molti anni dopo quel dirompente esordio, questo disco in solo della Bittova, lontanissimo da quello anche nell’orizzonte estetico. Dodici frammenti in una sorta di immaginaria suite innervata su un modern-folk che suona esotico o forse anche solo un po’ più “biologico” rispetto a molti altri viaggi alle radici. L’invenzione della Bittova nel costruire melodie modali, cantandoci sopra è sempre orientata da una capacità di mescolare gusto cabarettistico e abilità melodica intessuta di un profondo e intimo lirismo. Costruzioni semplici che mettono in campo un violino ormai folklorizzato e una sempre splendida voce che sa flettersi in un ventaglio espressivo poco comune. Una linea melodica, una piccola struttura ritmica, come nell’intro ed epilogo per voce e kalimba, diventano micro-mondi densi di fascinazione ipnotica. Come in una lunga e avvolgente ninna nanna che ci cattura per condurci nella culla dell’incoscienza e donarci un senso di regressione allo stato neo-natale.
2013 © altremusiche.it
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