Kinderklang vs Kindermusik

Michele Coralli

Durante una cena con alcuni amici musicisti la conversazione muove attorno a temi quali l’ascolto e le capacità di comprensione di suoni complessi. Rievoco allora, in quella circostanza, la mia esperienza educativa, raccontando ciò che in maniera del tutto spontanea e non predeterminata ho fatto con mia figlia fin dai suoi primissimi giorni di vita. È un aneddoto che mi capita spesso di riportare in quanto, a fronte del suo sviluppo cognitivo, ho potuto riscontrare da parte sua (pur non potendolo avvalorare attraverso alcun riscontro scientifico), una certa predisposizione all’ascolto e una capacità di comprensione e di immersione nella musica, nettamente superiore alla media dei suoi coetanei.

In estrema sintesi questo è quello che è capitato nei suoi primissimi mesi di vita, durante i quali ero chiamato a occuparmi di lei e delle sue necessità, in alternanza al tempo trascorso con la madre. Quindi, accanto ai piccoli discorsi che si fanno con i bimbi appena nati, accanto ai piccoli giochi che si limitano per lo più al reciproco passaggio di oggetti, accanto alla compagnia durante i suoi sonnellini e a tutto ciò che comporta la gestione di una creatura appena nata, una delle cose che ricordo di quei momenti e che più mi ha colpito è stato proprio la condivisione di ascolti di musiche che normalmente non entrano nella vita di un bimbo di quell’età. Mi riferisco in particolare a suoni provenienti dai CD che mi arrivavano a casa per essere selezionati ed, eventualmente, recensiti. Essendomi da sempre occupato di musiche contemporanee, di improvvisazione, di musica elettronica o di altri objets trouvés, la musica che mi capitava di mettere sul piatto, mentre tenevo in braccio mia figlia, era quella che ogni genitore normalmente considererebbe “dannosa” o, al limite, “fastidiosa”.

Quello che invece avveniva era una curiosità immediata da parte di mia figlia che si rivolgeva verso l’altoparlante, muovendo il braccino come a voler iniziare un piccolo processo di decodificazione di quel suono. Non voglio entrare nel merito delle spiegazioni dei processi percettivi e cognitivi di un bambino così piccolo perché non è il mio mestiere. Mi limito solamente a sottolineare che i sensi di un neonato, che per nove mesi è stato dentro il grembo materno, dal momento che possono liberare tutte le loro potenzialità, iniziano una lenta fase di affinamento che parte, sotto il profilo acustico, proprio dall’ascolto del suono delle voci dei propri genitori: il suono della voce della mamma e il suono della voce del papà. Una percezione completamente priva di significati culturali, perché quelli arrivano più tardi. Il primo approccio è quindi di riconoscimento di un suono certamente fin anche dall’interno della placenta.

Lungi da me, a quell’epoca, portare avanti degli esperimenti su mia figlia. In quelle circostanze l’idea era quella di ascoltare i nuovi dischi in sua presenza, senza alcuna preoccupazione rispetto alla difficoltà di comprensione da parte sua. Ne ero convinto allora e ne sono convito adesso: per un neonato non esiste musica facile, né difficile. Esistono solamente dei suoni, così come esistono due voci associate a due figure non perfettamente messe a fuoco da quegli occhi “miopi”. E quelle figure sono la mamma e il papà.

Quando cito questo episodio, spesso vengo guardato come un sadico che ha sostituito lo Zecchino d’Oro con suoni impropri per motivi squisitamente ideologici. È per questo motivo che mi affretto ad aggiungere che, in tempi successivi, tra gli ascolti di mia figlia sono entrate tutte quelle canzoncine inizialmente divertenti (poi martellanti) che compongono l’humus musicale infantile entro cui tutti quanti noi siamo “costretti” a crescere. Questa fase – tanto per essere chiari – non è stata negata. Rimane il fatto che è mia convinzione che quell’inconsapevole training di “approccio al suono” sia stato utile per formare una piccola capacità in più di discernimento di parte di quel gruppo di molecole minuscole che compone la complessità di una struttura musicale. Fine della mia riflessione e fine del mio intervento durante la cena con gli amici.

Nello stesso periodo mi capita di leggere un libro (“Demenza digitale” di Manfred Spitzer, Corbaccio 2013) nel quale si dice, all’interno di un capitolo dedicato ai danni generati dall’uso della televisione nelle occupazioni quotidiane dei bambini fino ai due anni, che:

Un neonato è in grado di distinguere perfettamente tutti i suoni di tutte le lingue del mondo. I bambini di un anno, al contrario, mostrano chiaramente l’effetto dell’apprendimento della lingua madre, perché sono in grado di riconoscere perfettamente i suoni, ma non sanno più distinguere i suoni che non sono previsti da questa lingua. In altre parole, si potrebbe dire che si sono specializzati nei suoni della lingua madre; riconoscono ciò che hanno percepito più spesso e non riconoscono ciò che non hanno mai udito.

Dopo aver letto la prima volta queste righe ho avuto un piccolo sobbalzo. Mi è sembrato infatti di aver trovato la spiegazione alla mia piccola pratica spontanea che non ho mai considerato di teorizzare in alcun modo. La riflessione quindi che mi è venuta immediata è che – considerando il suono l’elemento primario comune sia alla lingua (intesa come insieme di codici condivisi dalla comunità di appartenenza) che alla musica (a cui potremmo attribuire caratteristiche molto simili e non così universali come si pensa) – possiamo senza eccessive forzature mutuare le parole di Spitzer sostituendo il termine “lingua” con “musica” e provare a vedere che effetto fa. Quindi:

Un neonato è in grado di distinguere perfettamente tutti i suoni di tutte le musiche del mondo. I bambini di un anno, al contrario, mostrano chiaramente l’effetto dell’apprendimento della musica madre, perché sono in grado di riconoscere perfettamente i suoni, ma non sanno più distinguere i suoni che non sono previsti da questa musica. In altre parole, si potrebbe dire che si sono specializzati nei suoni della musica madre; riconoscono ciò che hanno percepito più spesso e non riconoscono ciò che non hanno mai udito.

Spero che il prof. Spitzer ci perdoni per questo piccolo esperimento editoriale, privo di qualsiasi senso scientifico. Non è il nostro mestiere produrre evidenze che possono essere generate soltanto dalla sperimentazione. Il nostro è puramente un punto di osservazione che deriva anche da una pratica di ascolto e da un’attenta esplorazione delle reazioni di una neonata rispetto a un piccolo universo di suoni non convenzionali. Ma, se è vero che sia le religioni che le scienze condividono la suggestione che le cose siano iniziate a manifestarsi proprio a partire da un suono (Verbo o Big Bang), allora possiamo liberamente pensare che, sebbene la nostra propensione “musicale” sia probabilmente innata, ogni tipo di “organizzazione sonora” sia invece – per dirla alla John Shepherd – frutto di elaborazioni socio-intellettuali, legittimate da poteri politico-economici e “dialetticamente mediate attraverso l’influenza esercitata dai media sulle facoltà sensoriali e cognitive delle persone” (“La musica come sapere sociale”, Ricordi Unicopli 1988).
Allora forse – consapevoli anche della forza coercitiva che sta dietro a una innocente canzoncina pop confezionata dal mercato per la fruizione infantile – possiamo iniziare a trattare il cervello dei neonati non anestetizzandolo con i tanti prodotti dell’entertainment industriale, bensì attraverso gli input che noi, in totale autonomia, consideriamo giusti per i nostri figli. Magari, invece di abbandonarli a se stessi in pasto alla televisione, allo smartphone o al tablet, tenendoceli in braccio e continuando a far sentir loro la nostra voce, accanto ai suoni del mondo.

aprile 2018 © altremusiche.it

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