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Mukalo Production è il nome di una piccola organizzazione di Bruxelles che da sei anni promuove gruppi zingari provenienti dai Balcani, come i macedoni Kocani Orkestar o i rumeni Taraf de Haïdouks. Hanno al loro attivo l’organizzazione di un gran numero di concerti in tutta Europa e anche delle pubblicazioni discografiche. Non essendo possibile rivolgere le nostre domande direttamente ai membri dell’ormai nota orchestra di fiati macedone, a causa di impedimenti linguistici e della ben nota diffidenza zingara nei confronti dei giornalisti, abbiamo chiacchierato con Sylve Passaqui del management.
Prima di tutto diamo qualche coordinata: Kocani è una città macedone di circa 40mila persone a pochi chilometri dalla frontiera bulgara. I componenti dell’orchestra vivono nei sobborghi della città, dove esistono intere zone abitate dalla comunità zingara, come avviene in molte delle città dell’Est europeo.
Quale importanza godono i musicisti zingari all’interno della società macedone?
«I musicisti sono molto rispettati, soprattutto Naat Veliov, il leader e trombettista del gruppo, che, avendo suonato come session-man in televisione, è molto conosciuto in tutta la Macedonia. Comunque il discorso vale per tutta la comunità zingara che è molto ben integrata nel tessuto sociale».
La musica della Kocani Orkestar scaturisce da un rimescolamento di diverse tradizioni, ad esempio prende molto dalla musica turca.
«Anche etnicamente sono molto rimescolati. Infatti sono zingari islamizzati dagli ottomani e la loro prima lingua è il turco. Ma le influenze sono assai diverse. La cultura macedone è molto vicina a quella bulgara, ma, allo stesso modo, ci sono influenze serbe e rumene che vengono dal Nord. Tutto rientra nella modalità, tipicamente zingara, di mischiare tutto. I Rom sono partiti dal Rajasthan e, attraversando diversi paesi, hanno assorbito moltissime tradizioni musicali, specialmente dall’area balcanica. Hanno tratto elementi dalla musica tradizionale rumena e ottomana, come nel caso delle fanfare militari. Tutti i diversi gruppi rom hanno però una identità musicale definita che si può ritrovare nell’uso delle percussioni, nel tipo di melodia e in certe canzoni che vengono condivise all’interno di diversi repertori, come, ad esempio, quello degli zingari che abitano alla frontiera di Perpignan, tra Francia e Spagna. I giannizzeri turchi arruolarono nell’esercito un gran quantità di zingari e li utilizzarono soprattutto come musicisti nelle bande militari. Gli strumenti che l’orchestra oggi utilizza sono i medesimi delle bande musicali di una volta, ma questi riproducono suoni che ricordano strumenti popolari diffusi fin in Azerbajdzian o in Afghanistan, come la zoúrna [oboe popolare n.d.r.] o il tapán [tamburo bipelle suonato con bacchette sottili, n.d.r.]. Nella Kocani Orkestar il modo di percuotere il tamburo ricorda la prassi tradizionale, così come la tromba e il sassofono rimandano all’oboe tradizionale».
Nell’Orkestar si può anche riscontrare un’influenza jazzistica. Penso in particolare alla prassi di scambiarsi i soli tra le trombe, la fisarmonica e il sassofono.
«Sì. Gli arrangiamenti sono opera di Naat Veliov, che ha vissuto in Germania e ha suonato in gruppi jazz per tre anni. A lui piace avvicinarsi al jazz di tanto in tanto».
Che tipo di background hanno gli altri musicisti. Come hanno imparato a suonare?
«Hanno studiato da soli, alla maniera zingara: di padre in figlio. Solo il fisarmonicista ha imparato a leggere la musica, mentre Naat Veliov, attraverso le esperienze in ambito jazz e in televisione, è entrato in contatto con diversi tipi di musica moderna».
Così la musica non viene mai scritta.
«No, è musica di tradizione completamente orale. È significativo ciò che è accaduto con Vinicio Capossela. Lui voleva una canzone scritta dall’orchestra da eseguire durante i suoi concerti. Invece l’orchestra ha preso tre dei suoi pezzi e li ha completamente riarrangiati. Dopo un giorno di prove li hanno suonati insieme dal vivo e registrati, ma l’intero lavoro si è basato sul buon orecchio dei musicisti, più che sulla loro capacità di leggere la musica».
E chi decide gli arrangiamenti?
«Naat lavora da solo, programmando nella sua testa tutti gli arrangiamenti, poi coordina gli altri musicisti».
Questo tipo di musica gode di una certa fortuna oggi anche per merito del film di Kusturica, Underground, anche se la Kocani non c’entra nulla con la musica di quel film…
«Infatti non è lo stesso gruppo che suona nel film. È vero che sull’onda del successo di quel film abbiamo avuto la possibilità di farci vedere. Ma è nato successivamente un fraintendimento sulla partecipazione alla registrazione della colonna sonora di Underground. Il repertorio che Goran Bregovic ha riarrangiato è esattamente quello macedone, ma il gruppo di ottoni non è la Kocani, anche se provengono da un villaggio vicino. Naat invece aveva partecipato alla colonna sonora del film Il tempo dei gitani».
Di quanti dischi si compone la produzione discografica dell’orchestra?
«Al momento ci sono solo due dischi. Il primo è del 1992 ed è stato pubblicato da una piccola etichetta di Parigi, la Longue Distance. Il titolo è Kocani Orkestar Gipsy Brass Band, ma è di difficile reperibilità. Il secondo, L’Orient est Rouge, è appena uscito. La differenza tra i due dischi è che il primo è stato registrato a Parigi in un pomeriggio. Il secondo in quattro giorni in Macedonia. In questo caso abbiamo potuto invitare alcuni musicisti: un suonatore di darabukka (tamburo monopelle, n.d.r.) due tapán e una zoúrna».
Il titolo, L’Orient est Rouge, cosa significa?
«Si tratta di una vecchia canzone comunista cinese, probabilmente scritta da un compositore francese, che poi divenne un grosso successo pop in Yugoslavia ai tempi di Tito. Ma non conosce la vera storia di questa canzone. Purtroppo nel disco è stato difficile avere delle note esplicative per ogni pezzo, soprattutto perché nell’orchestra non c’è la consapevolezza di una elaborazione storica del loro repertorio. Il loro approccio, come ho già detto, è molto istintivo, specialmente per quanto riguarda la trasmissione del patrimonio musicale e ciò non ti aiuta molto nel tracciare l’evoluzione di un repertorio. Il giorno in cui avremo il tempo, andremo a ricercare le origini di ogni melodia e canzone. Forse allora saremo in grado di pubblicare un libro, chissà…».
da: “Auditorium reviews”, n.2, 1997 © altremusiche.it / Michele Coralli
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