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Ascoltando il tuo disco (Cristina Zavalloni, Sensibile Records) le prime due cose che hanno attirato la mia attenzione sono state, da una parte, la tua completa adesione all’estetica della canzone (nelle sue forme trasversali: dal pop alla musica classica colta), dall’altra l’attenzione nei confronti della cultura ispanica e di chi a quel mondo ha guardato con interesse (come Ravel). Che importanza rivestono queste scelte all’interno della tua sensibilità artistica?
«La forma “canzone” è senz’altro un comune denominatore di molte delle cose che canto: si tratta di un punto centrale nel mio lavoro. Questo perché mi piace cantare, nonostante spazi tra suggestioni stilistiche lontane tra loro. La canzone è nata apposta perché la voce vi si senta a proprio agio, inoltre prevede spesso anche delle parole, quindi serve a dire delle cose. Al veicolo universale del suono si aggiunge quello del testo e, quando riesco a superare le inibizioni concedendomi il lusso di cantare una bella canzone, ho davvero la sensazione di comunicare qualcosa. E’ meraviglioso. La cultura ispanica poi mi è piuttosto familiare. Ho passato parecchio tempo a Barcellona, lì ho imparato la lingua e mi capita spesso di lavorare in Spagna con musicisti del posto, assorbendone la cultura. L’interesse per le sonorità brasiliane e per il fado, è derivato dal fatto che Stefano De Bonis si è trasferito in Portogallo. Per provare lo andavo a trovare ad Ericeira (sul mare, a nord di Lisbona), lì ho appreso i rudimenti del portoghese, da cosa nasce cosa… I riferimenti a musicisti ‘colti’ invece provengono dalla mia preparazione classica: amo molto la musica di Ravel, ma anche di Milhaud, dello stesso De Falla o del compositore brasiliano Xavier Montsalvatge. Come cerco di spiegare nelle note di copertina, nel disco appena uscito abbiamo deciso di riunire materiale di origine popolare o folklorica rivisitato da compositori accademici o rielaborato da me e Stefano attraverso arrangiamenti originali come nel caso di Tonada de luna llena».
A proposito di canzoni pop qui c’è un bel poker beatlesiano con evergreen del calibro di Yesterday e Michelle, negli arrangiamenti di Luis Andriessen concepiti per Cathy Berberian. Non credi che oggi quei brani suonino ormai come qualcosa di ormai obsoleto? Mi spiego meglio: nella comune pratica del crossover classico ci si imbatte spesso in brani dei Beatles o di Jimi Hendrix, che ormai sono stati ben che assimilati dal pubblico. Dal momento in cui esiste sempre il rischio di apparire ridondanti, non credi che ci sia il pericolo di ripetersi attraverso esperienze del genere?
«Certamente lo credo, anzi ne sono convinta: io oggi non farei un arrangiamento di Yesterday. Ma i motivi per voler incidere un brano possono essere molteplici: innanzitutto l’anno di uscita del disco coincide col ventesimo anniversario dalla morte della Berberian, avvenuta nel 1983. Questo mi ha fatto nascere il desiderio di ricordarla inserendo nel disco un brano scritto per lei. Poi c’è anche un valore storico: si tratta di pezzi degli anni ’60 e vanno letti come un divertente ripescaggio reso possibile dalla mia frequentazione di Andriessen. Gli amanti della Berberian conoscono a memoria quei pezzi grazie a una registrazione live inserita in una raccolta a lei dedicata. Diciamo che ha anche influito il vezzo di poter essere l’unica cantante autorizzata a re-inciderli».
Mi piacciono i tuoi brani. Mi sembrano quelli che si spingono in modo spontaneo verso la sperimentazione… Quando hai iniziato a comporre?
«Da piccolina. Mio padre ancora si commuove raccontando una leggenda familiare circa un brano che avrei composto strimpellando al pianoforte a otto anni. In realtà, durante l’ultimo anno di liceo ho iniziato a sentire il bisogno di esprimermi altrimenti che con la voce. Fu un periodo difficile: mi presi una brutta polmonite che mi costrinse a letto per parecchi mesi. Di cantare naturalmente non se ne parlava. Avevo ormai preso l’abitudine di considerare la voce il mio punto di forza, il veicolo delle emozioni e un modo per rapportarmi con l’esterno. Perdendola mi ritrovai disarmata e decisi che investire tutto in uno strumento delicato come le corde vocali era troppo rischioso. Così iniziai a scrivere, fino a prendere la decisione di iscrivermi al corso di composizione classica al Conservatorio di Bologna. A parte gli studi accademici, la maggior parte delle cose che ho scritto erano destinate all’Open Quartet (la mia prima formazione jazz, nata a metà degli anni ’90) e in seguito al duo con Stefano De Bonis. Poi ho realizzato un paio di cose per ensemble, alcune musiche per cartoni animati, un quartetto d’archi ma soprattutto canzoni, quasi sempre per la mia voce. Questo è il primo lavoro discografico in cui mi avventuro nell’esecuzione di musica scritta. Tutti i dischi realizzati precedentemente contenevano composizioni originali o arrangiamenti realizzati in assoluta libertà. Questa volta avevo voglia di misurarmi con qualcosa di diverso».
Hai citato Cathy Berberian. Quanto ha influito il suo stile e la sua personalità nella tua formazione?
«Parecchio, ma è giunta l’ora di tagliare definitivamente il cordone ombelicale: ammirare tanto qualcuno può essere un’arma a doppio taglio, bisogna stare attenti. Non ho avuto la fortuna d’incontrarla, ma ho sentito per la prima volta la sua voce su disco parecchi anni fa e ora conosco quasi tutta la sua produzione. Quello che mi ha maggiormente ispirato di lei è l’uso camaleontico della voce, la versatilità stilistica, la forza della personalità e la gioia del suo fare musica. Quando ho deciso di dedicarmi professionalmente alla musica, mi sono volutamente tenuta alla larga per tanto tempo dai meccanismi perversi della musica commerciale e del mercato discografico, spiazzando costantemente l’ascoltatore con scelte musicali sempre diverse. Non l’ho fatto apposta: ero e sono alla ricerca di un modo di esprimermi che mi porta a essere catalogata, ora come cantante di jazz, ora come improvvisatrice, ora come esecutrice di musica contemporanea, ora come figura di confine tra pop e avanguardia! La mia speranza è sempre stata che prima o poi tutte queste esperienze confluissero in uno stile personale e organico. E’ stato difficile non scoraggiarsi quando mi dicevano che così non sarei andata da nessuna parte. Cathy Berberian in quei momenti mi veniva in aiuto: è stata la testimonianza vivente del fatto che cantare non significava interpretare uno stile piuttosto che un altro, ma solo mettere la voce al servizio della vita e della propria personalità, per complessa e irriverente che sia. Insomma, il rischio per un periodo è stato quello di ricalcarne le orme. Ma, come ho già detto, le figure di riferimento non vanno imitate. Al massimo se ne può seguire l’esempio, sforzandosi di andare oltre».
Stai comunque per realizzare un “Omaggio a Cathy Berberian” su commissione del Teatro di Reggio Emilia. Su quale repertorio si basa l’omaggio?
«In realtà gran parte delle mie attività concertistiche di quest’anno sono dedicate a Cathy Berberian. A volte si tratta di eseguire le folk songs scritte per lei negli anni ’60 da Luciano Berio, oppure di interpretare musiche riconducibili comunque a lei nel recital con Andrea Rebaudengo. Lo spettacolo di Reggio Emilia è un omaggio più composito: abbiamo pensato di commissionare quattro nuove creazioni ad altrettanti compositori: Louis Andriessen, Paolo Castaldi, Claudio Lugo, Uri Caine. I brani sono dedicati a Cathy, ma realizzati per il nostro ensemble, che comprende anche Andrea Dulbecco e Antonio Caggiano alle percussioni, Margherita Bassani all’arpa, Stefano Dall’Ora al contrabbasso e Monica Germino al violino. Lo spettacolo riprodurrà testimonianze dirette della Berberian, in forma di video, foto, articoli, ascolti. La parte musicale verrà completata da brani tratti dal mio repertorio con Andrea (Berio, De Falla, Stravinskij)».
Quali altre/i cantanti sono state/i importanti per te?
«Questa risposta finisce inevitabilmente per essere una lista di nomi: da Cassandra Wilson a Yma Sumac, da Victoria de Los Angeles a Cecilia Bartoli, da Sarah Vaughan a Mina, da Caterina Valente a David Moss, da Diamanda Galas a Björk, da Helen Merrill a Nina Hagen, a Emma Kirkby, Ella Fitzgerald, Fred Buscagliene. Da tutte queste voci ho imparato qualcosa».
Di cantanti americane come Meredith Monk, Joan La Barbara, Diamanda Galas cosa ne pensi? Sono lontane dalla tua sensibilità?
«Affatto. Le ho ascoltate a lungo e credo di averne assimilato qualcosa. Quella che conosco meno è Joan La Barbara: l’ho sentita dal vivo al festival di Angelica a Bologna, qualche anno fa. Eseguiva naturalmente la musica di Morton Feldman. In quel caso mi sono sentita davvero distante: era così eterea, sfuggente, sembrava essersi privata della propria carnalità, riducendosi a un’icona lunare e inafferrabile. Molto affascinante, sul serio. Ma la sentivo lontana quasi fosse una aliena».
Devo dire che il curriculum impressiona per la grande quantità di esperienze che sei riuscita a vivere. Mi piace soprattutto vedere al fianco di personaggi più “istituzionalizzati”, anche, come dire, “anime libere” come Misha Mengelberg, Pierre Favre, Tristan Honsinger. Da dove è nato l’interesse per quel mondo?
«Forse la domanda dovrebbe essere rovesciata: da dove è nato l’interesse per il mondo più “istituzionalizzato”?
In effetti le mie prime esperienze consapevoli sono state nell’ambito della musica di avanguardia e della sperimentazione più radicale. Finito il famoso liceo, proprio mentre mettevo piede in Conservatorio con i corsi di canto e composizione, mi sono imbattuta nel jazz grazie ad alcuni giovani strepitosi musicisti che gravitavano nell’area bolognese del tempo, attratti per lo più dal DAMS. Lì si è costituito il collettivo Bassesfere (ancora esistente). Insieme si diede vita a un linguaggio molto personale, la cui principale influenza oggi potrei dire essere stata l’avanguardia jazzistica olandese, permeata dal gusto per l’improvvisazione ma anche per la pantomima, l’ironia, la libertà più assoluta. Tra i musicisti di Bassesfere che mi influenzarono di più vorrei citare Guglielmo Pagnozzi, Francesco Cusa, Fabrizio Puglisi, Edoardo Marraffa, oltre naturalmente a De Bonis. Ho imparato moltissimo da quell’esperienza. Da allora sono venuta a contatto con alcuni mostri sacri del genere, tra cui quelli che hai citato tu ma anche altri come Ernst Reijseger, Han Bennink, Michel Godard, Louis Sclavis, Gianni Gebbia e molti altri».
Sul versante dei compositori “classici” hai un rapporto particolarmente intenso con Luis Andriessen. Cosa apprezza lui di te e cosa tu di lui?
«Io di lui apprezzo lo spessore compositivo, umano, artistico, inoltre la fedeltà al concetto di amicizia, l’onestà intellettuale, la completa affidabilità e il rigore. Lui di me credo apprezzi la versatilità stilistica, la precisione esecutiva, il piacere con cui affronto la musica e il calore che mi deriva dall’essere profondamente italiana. Credo gli piaccia il suono della mia voce ed il fatto che sono sempre disposta a mettermi in discussione per venire incontro alle sue
esigenze compositive. E’ un rapporto molto bello e sano. Louis Andriessen sta facendo moltissimo per me, offrendomi l’occasione di esibirmi in giro per il mondo, in contesti di grande prestigio. Lui ha sempre avuto un rapporto privilegiato con i propri esecutori. Dice anche che io ho fatto tanto per lui, ispirandolo nelle sue composizione degli ultimi anni. Per me questa è una cosa fantastica e davvero speciale».
aprile 2003 © altremusiche.it / Michele Coralli
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