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I tempi – va detto – sono definitivamente cambiati da quando alla Scala si fischiava Salvatore Sciarrino, non più tardi di una trentina di anni fa. E il severo (o reazionario) pubblico scaligero di quegli anni lo faceva perché identificava il compositore come uno dei figli di quella generazione interessata più all’evoluzione del proprio linguaggio, piuttosto che al compiacimento del pubblico. Pur non legandosi direttamente alle estetiche strutturaliste, il percorso di evoluzione della sua musica ha attinto a quell’attenzione per il dettaglio infinitesimale, uscendone poi quasi come un distillato, pur sempre contrapposto a certa neo-semplicità post-moderna. Un progressivo processo di sottrazione consegna oggi all’ascolto un insieme di tessere molto piccole e dettagliate che vivono come frattali su un fondale che tende a un voluminoso silenzio.
Eppure dopo tanti ascolti “punitivi” (secondo una definizione di recente conio), sentiamo che non è nel linguaggio musicale che troviamo l’inciampo di fronte a molte opere recenti di Sciarrino, ma in qualcosa di più profondo. Non intralciano infatti le nostre capacità di comprensione di quel suono né la costante iterazione di quelle tessere motiviche ricorrenti (basate, ad esempio, su attacchi in dissolvenza e glissando da seconda o terza maggiore) oppure il ben noto recitativo (caratterizzato anch’esso da dissolvenze, rapide intonazioni del testo e arricciamenti finali), o ancora, in sede drammaturgica, la trasgressione della regola aurea del recitativo classico (ovvero se l’aria interrompe l’azione, il recitativo la muove, perché, anche in questo caso, il continuum narrativo viene sottoposto a un lento sviluppo dettato proprio dalle caratteristiche anti-drammaturgiche del recitativo sciarriniano). Nel suo idioma ogni segmento funziona come un insieme di leitmotive che percorrono l’intera opera recente, situandosi alla base di una vera e propria costruzione sintattica. Sciarrino in questi anni ha fondato una nuova vocalità (la “monodia assoluta”) i cui contorni, a partire dal Quartetto n.7 (1999) si estendono anche alla musica strumentale. Tutto questo dona al suo linguaggio un’unità che va oltre il semplice stile e ovviamente rende la sua musica molto riconoscibile anche a chi non è avvezzo ad ascolti massicci di musica contemporanea. Come ha più volte specificato il maestro, questo ventaglio tematico ricorrente aiuta a rendere più evidente ciò che è nuovo, a patto ovviamente che chi ascolta si dedichi con una certa devozione all’opera sciarriniana. In tale senso troviamo degno di ammirazione l’idea progettuale di un grande work in progress artistico, che si dipana attraverso momenti, finalità, commissioni, organici molto differenti tra loro, in una sorta di unicum artistico la cui coerenza potrebbe diventare modello di riferimento.
Ma torniamo al punto. Se non sono gli elementi costruttivi a rendere difficile la musica di Sciarrino, che cosa interviene allora nel determinare quello che personalmente intendiamo come un ostacolo? Proviamo a suggerirlo attraverso due composizioni cronologicamente molto distanti tra loro, ma ascoltate nello stesso luogo (la Scala), un giorno dopo l’altro (13 e 14 novembre 2017), in occasione dell’omaggio che la XXVI edizione di Milano Musica tributa al maestro: la “Morte di Borromini” (1988) con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI diretta da Cornelius Meister e la voce recitante di Fabrizio Gifuni e l’opera “Ti vedo, ti sento, mi perdo” (2017), coproduzione del Teatro alla Scala e Staatoper di Berlino, con Orchestra del Teatro alla Scala diretta da Maxime Pascal e regia di Jürgen Flimm.
Nel primo caso le ultime parole dell’architetto Borromini – dettate al medico che lo vegliò durante l’agonia seguita al maldestro “harakiri” e interpretate qui da una voce recitante dal tono uniforme – costituiscono l’impalcatura principale di una composizione dalla grandissima forza evocativa ed espressiva, un vero e proprio nocciolo emozionale. Il delirio di Borromini diventa rappresentazione di un’area grigia che riempie di piccole suggestioni quel passaggio cruciale tra la vita e la morte. Le flebili parole disconnesse quanto apparentemente senza priorità, il soffio prodotto da un segmento di flauto, il baluginare di una sezione di trombe e tromboni con sordina wa-wa, le campane che battono le ore. Ogni suono sembra evocare il ben precisato panorama sonoro: la silenziosa e livida alba romana del 2 agosto 1667, la camera del moribondo illuminata da mozziconi di candele e l’affievolirsi dell’ultimo afflato vitale di un corpo che sta perdendo progressivamente ogni funzione. Una cellula musicale molto piccola procede per dar corpo a una perdita di contatto, che trova con il destino di noi tutti una relazione molto intima, congiunta, perfino commuovente ed universalmente condivisa nel suo modo di proporsi.
“Ti vedo, ti sento, mi perdo”, opera dedicata ad Alessandro Stradella (tra l’altro coevo di Borromini), si offre a noi attraverso una varietà emotiva in bilico tra diversi stati d’animo, nessuno dei quali riesce a compiersi in modo egemone: è assente un centro emozionale univoco. C’è la suggestione del personaggio solamente evocato del compositore barocco, un personaggio maledetto, genio e sregolatezza, che però non è in scena. Tutta la sua carnalità, la sua pulsione sensuale e il suo talento musicale rimbalzano su alcuni personaggi fermi alle loro chiacchiere di palazzo. Il racconto si snoda quindi attraverso i dialoghi tra i personaggi del Musico invidioso (il tenore Charles Workman) e del Letterato strenuo difensore di Stradella (il baritono Otto Katzameier), stimolati dalle letture di gazzette o di lettere che riportano alle cronache le fughe d’amore del compositore in giro per l’Italia del tempo. Altro personaggio centrale dell’opera è la Cantatrice (Laura Aikin), soprano che assume su di sé gran parte del peso specifico dell’impianto sonoro, incarnando in prima persona il portento creativo stradelliano. È attorno a lei che si attuano i determinanti snodi musicali che legano la musica di Sciarrino a quella di Stradella in un gioco di rimandi, citazioni e, diciamo pure, di alleggerimenti della tensione idiomatica.
Attorno a questi tre personaggi uno stuolo di creature barocche dai contorni stilizzati: una coloritura in bilico tra la miniatura teatrale, il circo e la farsa. Un piccolo popolo di personaggi irreali quasi da Singspiel mozartiano che movimenta una scena drammaturgicamente statica, appena appena movimentata dai siparietti di una scuola di ballo, un girotondo, una pantomima mascherata. Trucco, parrucche, busti e guardinfanti adornano questi personaggi che si muovono tra i bianchi lintei dalla purezza virginale a delimitazione di una scena fatta di colonne di plexiglass a capitello dorico, poltrone Luigi XVI, tavolacci e sacchi appesi. Un Seicento che affolla oggetti come in una memoria post-moderna; una scena che, così colma di oggetti, gioca alla rappresentazione dell’inconscio.
E mentre prestiamo attenzione a quell’inconscio, cercando di decifrarne i contorni, le vicende si muovono altrove. Come abbiamo detto la storia riguarda Stradella, il suo genio musicale, le sue avventure amorose, la sua lotta per la sopravvivenza. Tutto però avviene da un’altra parte. A noi giunge solamente un’eco lontana, mediata da un insieme di personaggi bizzarri. E come un suono che rimbalza da lontano, anche quell’emozione rimane distante, quasi strozzata.
E se da una parte ammiriamo quel dipingere il tempo senza tempo, non sentendo minimamente la necessità di aggrapparci a trame realistiche o immediatamente riferibili a una situazione carica di pathos, ciononostante, vuoi per quanto si diceva all’inizio ovvero in ragione di quella “monodia assoluta” fatta di costruzioni motiviche ricorrenti, vuoi per la sospensione narrativa che impedisce o rende difficile l’ingresso emotivo nella rappresentazione di questa opera, la difficoltà di sciogliere un’emozione forte a tratti pare invalicabile. Le suggestioni si affastellano a fronte di un disorientamento. Forse in tal senso quel “mi perdo” è un voluto effetto che si produce in chi ascolta (o almeno in qualcuno di costoro). O forse invece un’opera come “Ti vedo, ti sento, mi perdo” rimane sotto il profilo emozionale molto legata all’intimità sciarriniana e a quella di tutti coloro che ne condividono il tratto profondo – quello che in tutti noi si muove tra l’Io e l’Es – e che proprio Sciarrino ci aveva suggerito in una nostra recente conversazione: “Noi conosciamo una cosa e l’amiamo, quando la riconosciamo. Perché conoscerla non ci dà un’intimità. Può darci una grande emozione e una grande sorpresa, ma è il riconoscerla che la fa entrare a far parte di noi stessi”.
Oggi abbiamo conosciuto l’ultima opera di Sciarrino, ora ci vorrà del tempo prima di poter dire di riuscire definitivamente a riconoscerla. Da parte sua, il pubblico della Scala del 2017, dopo tanti anni, durante i quali si è generata una sorta di reciproca auto-riconciliazione, sembra oggi invece essersi completamente riconosciuto in essa. Ma, come dicevamo all’inizio, i tempi (per fortuna) sono definitivamente cambiati.
2017 © altremusiche.it
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