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Attorniato da un gruppo di giovani musicisti che sanno far pesare la loro presenza anche attraverso una timbrica molto elettrica (nel senso più avant-rock che davisiano), Louis Sclavis si ripropone al solito come una delle figure più interessanti del jazz europeo, quello che ovviamente riesce ormai a liberarsi di quel fardello che obbliga normalmente il normale jazzista a reinventarsi il ruolo di tutore della recente tradizione, anche quella più innovativa. Il merito di Sclavis è invece quello di tenersi lontano da queste responsabilità semplicemente sposando una causa che fa della sua lingua musicale un esperanto che mescola le parti migliori delle espressioni musicali degli ultimi cinquant’anni, in un’opera di trasfigurazione degna del miglior acquarellista che usa colori forti con tinte diluite. “L’imparfait des langues” è un disco che parla l’imperfezione delle lingue musicali con una spontaneità che è rara in certe produzioni che curano più la veste sonora che il feeling.
Se a tratti il sound di Sclavis può apparire affetto da un ordine e una pulizia degni di uno dei più efficienti tecnocrati del jazz moderno come Steve Coleman, subito in perfetto equilibrio in quel sound però riaffiora un certo primitivismo (non solo di stampo rock, ma anche di marca flebilmente etnico-arcaica) che toglie la cravatta al musicista più educato – quello che può funzionare anche in quei locali dove per cifre non modiche puoi anche consumare una cena frugal-chic. Tornano allora le anarchie AACM e quanto di meglio si è mosso fuori dagli asfittici standard di tradizione, torna un certo minimal-jazz o certe nuances care ai più fedeli interpreti della nostalgica steppa boreale come Thomasz Stanko, tornano certe asimmetrie che sono stato il vessillo di un’alterità trasversale che da Albert Ayler arriva a Doctor Nerve e a chissà chi altro…
2007 © altremusiche.it
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