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Usare le tradizioni semplicemente evocandone un tratto o cogliendone l’ombra, per avanzare sui terreni in cui si incontrano nuove tecnologie e studio timbrico dei singoli strumenti. Il sardo Lucio Garau sembra incarnare il profilo del compositore attuale che cerca un linguaggio personale e originale, pescando da diverse galassie sonore (Hendrix, la musica per le launeddas, Anzellotti, e molto altro ancora), che sono solo una minima parte dell’universo musicale che ci circonda: quello che faticosamente si cerca di indagare quotidianamente, ognuno di noi a suo modo.
È evidente che la tua musica è molto aperta alle contaminazioni stilistiche e di genere. A volte c’è un “contegno” tipicamente “colto”, a volte un abbandono nei territori dove i codici sono meno contingenti (penso soprattutto all’improvvisazione). Senza voler tracciare una mappa di influenze e derivazioni, quali sono le coordinate utili per capire il tuo linguaggio musicale?
«Il concetto di interpretazione. Il rapporto critico con la tradizione, intesa ormai come un insieme di tradizioni. L’importanza di perseguire, nei limiti e negli spazi che la società nella quale viviamo ci pone, una visione politica della musica».
La fisarmonica sembra uno strumento al quale sei molto legato (xballu, Concerto per fisarmonica e piccola orchestra), oltre al fatto che puoi contare su interpreti particolarmente sensibili come Claudio Jacomucci. Questo interesse da cosa nasce in particolare?
«Ora posso dire di conoscere meglio lo strumento, ma è stato un lungo percorso che non avrei potuto intraprendere senza Claudio. Ci siamo conosciuti nel 1990, lui aveva 16 anni e venne a suonare a Cagliari. Io conoscevo un poco la fisarmonica contemporanea e qualche mese dopo ascoltai Anzellotti. Da quel momento la fisarmonica è entrata nel mio immaginario. Solo nel ’96 ho scritto la mia prima composizione per due fisarmoniche, visto che Claudio suonava nel duo Acco-Land. Intanto aveva anche prodotto ed eseguito la trascrizione di una mia composizione. Non ero ancora maturo per un vero pezzo, che poi è arrivato nel 2000 con xballu. Quando nel 2003 il Teatro Lirico di Cagliari mi ha chiesto una composizione per la sinfonietta, ho pensato a un brano per strumento solista e piccola orchestra. Volevo provare a confrontarmi di nuovo con la fisarmonica e adesso posso dire qualcosa su questo strumento, che unisce fiato (il mantice) alle possibilità della polifonia e che ha molti “repertori” interessanti. Questo però è un discorso freddo e il mio vero interesse deriva dalla fortuna di aver conosciuto Jacomucci con il quale, negli anni, si è sviluppato un rapporto di amicizia e non solo di collaborazione. La fisarmonica è poi presente anche in altri brani come be-bop e una suite che utilizza anche suoni su supporto e live electronics».
Ci sono anche altri strumenti come la chitarra, per cui hai scritto un brano dal forte carattere improvvisativo (eseguito da Marco Pavin alla chitarra elettrica). Quanto credi che l’interprete influenzi la tua composizione musicale?
«In quella composizione (il cui titolo originale era j…x preludio, dato che doveva essere il preludio di uno spettacolo su Jimi Hendrix, per il quale non ho mai trovato un produttore) ho usato quasi solo frammenti hendrixiani. La sfida era riuscire a unire un mondo di suoni che mi piaceva, ma che in Hendrix è caratterizzato dalla velocità e dalla densità, con un mondo molto più rarefatto nel quale la gestione del tempo e quindi la “memoria” viene posta in primo piano. Se vedi la partitura di j…x, ti accorgi che non c’è spazio per l’improvvisazione. Come ti ho detto prima, per me esiste un problema terminologico. Faccio riferimento a un insieme di comportamenti molto generale e ampio, che chiamo interpretazione. Molte delle pratiche che chiamiamo improvvisazione sono invece, sempre secondo me, pratiche di interpretazione.
Per quanto mi riguarda, nell’interpretazione trovo molte cose in cui mi riconosco. Il mio lavoro, anche di compositore, si pone fondamentalmente in questo ambito. Esiste cioè una parte di improvvisazione e una parte di interpretazione. Per evitare fraintendimenti legati al diverso significato che si può dare alle parole, cito il Treccani alla voce improvvisazione: “…comporre versi all’improvviso senza preparazione e meditazione, o comporre musica nell’atto stesso di eseguirla.”Si fa quindi un chiaro riferimento al fatto che non ci sia preparazione. Cito la Garzantina: “libera invenzione di un brano musicale nel momento stesso dell’esecuzione.”
Dunque la parte improvvisata per me esiste anche quando scrivo. Ci sono delle decisioni che arrivano senza preparazione, non sono il frutto di un lavoro continuo di riflessione e di valutazione. Questa parte per me è molto importante e mi interessa studiarla e capire qualcosa di più perchéla parte improvvisata per me esiste anche quando scrivo. Mi accorgo però che all’improvvisazione si dà spesso un significato diverso: è noto che artisti ingenui e critica ingenua spesso pensano che una cosa sia più interessante solo perché è improvvisata. Da fruitore-musicista io sono interessato al risultato. Da compositore mi interessano fortemente le pratiche che lo producono.
Si parla spesso di improvvisazione in musiche che invece sono solo di tradizione orale, in cui di fatto si “interpreta” un testo, che non è scritto. In queste musiche esiste una parte di improvvisazione, ma la parte di interpretazione è molto più grande. E’ sempre più frequente poter ascoltare musica che appartiene a generi di cui si sa molto poco e quindi i fraintendimenti di questo tipo sono molto diffusi. Immagino che sia molto “poetico” pensare che la musica viene “creata” sotto i nostri occhi e forse da questo deriva per esempio il feticismo relativo al suonare senza avere di fronte la musica scritta, nell’ambito della pratica concertistica di un pianista. Se quando faccio una conferenza e parlo di argomenti che conosco bene, mi scrivo solo una scaletta per comodità e ogni tanto gli do una occhiata cosa faccio? Improvviso o interpreto? Questa è la pratica di molti cosiddetti “improvvisatori” della scena contemporanea. Alcuni usano una scaletta scritta, altri la mandano a memoria.
Tornando al Treccani in seguito si dice che la parola include talora un giudizio negativo, denotando la frettolosità, la mancanza di studio o di meditazione, se non anche la faciloneria. Questo era (ed è ancora) uno dei significati del termine ma le cose oggi stanno però diversamente perché la pressione dell’egemonia culturale della musica scritta, che negli ultimi 40 anni ha attraversato una crisi profonda, ha portato negli ultimi anni ad una reazione che è consistita in una sopravvalutazione di ciò che è costituzionalmente altro rispetto alla musica scritta. Penso che un musicista che sia responsabile “politicamente”, che voglia cioè una società migliore, debba intervenire su questi concetti, ponendo spesso il dito sulle ambiguità e sulle mistificazioni che la pratica musicale attuale ci mette sotto gli occhi».
Sei interessato a un tipo di estetica “ambientale”, intendendo con essa una natura musicale che porta a qualcosa di altro da sé, che potremmo chiamare evocazione?
«Cito dal mio sito: “….lavoro di indagine di carattere storico ed estetico intorno ai temi dell’”improvvisazione”, dell’”interpretazione” e dell’”ambiente” — inteso sia come ambiente storico sia come ambiente della riproduzione in musica — e gli aspetti a questi correlati, coinvolgendo e approfondendo nella attività di ricerca anche gli aspetti tecnici della produzione del suono.”
In altre parole sono interessato all’opera ma anche al contorno e quindi all’ambiente, quando dico storico faccio riferimento al mio interesse verso l’organologia, verso gli strumenti antichi, verso le problematiche di evoluzione del concetto di performance, quando dico ambiente della riproduzione faccio riferimento alle problematiche tipiche della musica acusmatica e, cosa finora sottovalutata, ai rientri di queste problematiche nella tradizione del concerto».
Quanto conta l’elettronica nella tua musica? Intendendo con essa anche il suo utilizzo in termini di scappatoia, ovvero di possibilità di poter manipolare le cose in modo da correggerle, cambiarle e mutarne l’essenza originale…
«Tramite l’elettronica (inizialmente con l’elettroacustica) ho cercato di evidenziare qualcosa dentro i suoni. Quando ho iniziato a fare il compositore, credevo che avrei scritto solo per strumenti microfonati, poi, in seguito, ho scritto anche per strumenti non microfonati. Però anche oggi, quello degli strumenti acustici mi sembra un campo “limitato”. E’ difficile tornare indietro e immaginare la musica senza microfono, senza la possibilità di scendere dentro il suono, la possibilità di evidenziare le grane del pianissimo, di modificare i riverberi, di cambiare, mutare, l’essenza del suono».
Veniamo quindi a Brian-tej, di che si tratta?
«Ho lavorato con Marina Faggioli molte volte, ci conosciamo da tantissimo tempo. e quando due anni fa nel 2003 è uscito un software (max-msp-jitter) che permette finalmente con un portatile di fare delle elaborazioni video in tempo reale abbiamo deciso di proporre dei lavori insieme. Purtroppo nel 2004 sia io che lei abbiamo cambiato casa (lei anche città). Così non abbiamo avuto la forza di lavorare su questo progetto a fondo. Il nome brain indica il cervello e tej è l’abbreviazione di tejdos (tessuto in spagnolo). Tejdos così si chiamava un mio progetto al quale abbiamo lavorato per anni e di cui esistono alcune versioni: una, appunti, è pubblicata anche come CD-rom in ricercare 2. Adesso stiamo lavorando a un nuovo progetto che speriamo sia pronto entro la fine dell’anno».
Nella tua musica ci sono le tracce di una tradizione orale come quella sarda (penso all’acusmatica Numeri). Al di là del legame affettivo che sicuramente ti lega alla tua regione, quali credi che siano le ragioni della presenza (anche se molto alterata) della musica popolare sarda entro generi “moderni” e sperimentali come il tuo?
«Penso che la musica “tradizionale” sia una miniera di materiali musicali che spesso propongono alternative interessanti ed eleganti a problemi musicali importanti. Ho avuto la fortuna di studiare con un compositore, Franco Oppo, che la pensava in questo modo. La cosiddetta “avanguardia” musicale europea ha cercato ossessivamente di scavare in una direzione e ha, sempre ossessivamente, inseguito un certo ordine delle cose. Io non mi ritrovo in quel contesto, anche se conoscerlo e studiarlo è stato fondamentale. Penso però che nel mio lavoro gli stimoli vengano dalle molte tradizioni che incontro. Non ho una conoscenza esaustiva della musica popolare sarda, conosco bene un solo repertorio, altri in maniera approssimativa.
Personalmente ho avuto l’occasione di frequentare a un livello non superficiale, oltre alla musica della mia etnia di riferimento, la cosiddetta musica classica e le sue derivazioni contemporanee, anche altre tre “musiche” complesse. La musica delle launeddas, non grazie al fatto che sono nato in Sardegna, ma grazie al fatto che nel 1988 ho accompagnato Franco Oppo in un lavoro di ricerca sul campo per conto del museo etnografico di Nuoro, e per il bellissimo volume scritto da Andreas Bentzon. Poi la musica di corte degli amadinda, una popolazione che viveva vicino al lago Vittoria in Africa, per merito del lavoro di Gerhard Kubik, di cui avevo un articolo su un volume acquistato presso la libreria del Museo per le tradizioni popolari di Berlino nel 1987. Infine la musica indiana strumentale che corteggio da almeno vent’anni. Ho cominciato frequentando un corso di tabla alla Fondazione Cini nel 1984 e letto diversi libri. Nel frequentare una musica è importante proprio l’assiduità con la quale la si ascolta e, per quanto abbia un desiderio di approfondire la mia conoscenza della musica indiana, evidentemente non ho mai il tempo giusto da dedicarle e non progredisco. Nel 2005 è previsto in giugno un concerto per il quale dovrei scrivere una composizione confrontandomi con la tradizione delle tabla, quindi nei prossimi mesi dovrò trovare il tempo per ascoltare e studiare.
Grazie all’impegno personale, ma grazie anche al lavoro di altri studiosi e al fatto che oggi questi tre repertori sono disponibili su supporto fonografico e che quindi è possibile avere ascolti precisi e ripetuti, nonché accedere ad informazioni critiche e analitiche, anche per un “estraneo” è possibile approfondire la conoscenza di una musica di un altra “etnia” in tempi relativamente brevi.
Sino ad un secolo fa questo non era possibile, il mondo era molto più chiuso dal punto di vista culturale ed era assai raro che un’etnia considerasse seriamente la cultura altrui. Oggi appartenere a più etnie dal punto di vista culturale è assai comune, assai meno comune è avere accesso a più musiche complesse. Intendo ovviamente con cognizione di causa, non penso al fatto che posso avere in casa un disco o un libro, ma credo che per avere accesso ad una musica complessa ci vuole del tempo da dedicarle».
marzo 2005 © altremusiche.it / Michele Coralli
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