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Un prato di lamine d’oro
per un corpo
fatto leggero
Allora lo spirito ha luogo
dove le lamine
non hanno più peso
non cadono più
(Bruno Maderna)
[…] soltanto più tardi, nella piena maturità artistica, Bruno troverà il nome,
azzeccatissimo, di aulodía. Cioè il canto di uno strumento a fiato,
e pertanto univoco, incapace – in linea di massima – di produrre suoni simultanei, come accade invece agli strumenti a corde. Melodia assoluta, dunque.
(Massimo Mila)
Quando sarà il tempo di Maderna?
Bruno Maderna è ancora in attesa di una rivalutazione piena, per acclamazione. Non che i ‘segni’ lasciati dalla sua musica siano caduti nel vuoto, anzi; altri compositori li hanno raccolti, ed è sufficiente considerare gli oltre centoventi lavori che i colleghi compositori della sua e delle generazioni successive hanno voluto dedicargli. Eppure, a tutt’oggi, nonostante lavori musicologici notevoli – in primis quelli di Rossana Dalmonte e Mario Baroni, responsabili dell’Archivio “Bruno Maderna” all’Università di Bologna, nonché curatori della riedizione critica del catalogo maderniano – e rassegne monografiche organizzate da istituzioni e associazioni musicali importanti, nella considerazione della critica e degli appassionati Maderna sembra trovare posto un gradino sotto rispetto ai compagni di viaggio dell’avanguardia. Si direbbe che nei suoi confronti resistano sgarbi critici di vecchia data, gli stessi che gli erano riservati in vita.
In Maderna musicista europeo (Einaudi, Torino 1976), vademecum maderniano ormai storico dove compare la definizione di “melodia assoluta”, intesa come categoria principale della musica di Maderna, Massimo Mila sostiene in modo coinvolgente che fra cent’anni “l’accento della Storia batterà sul compositore (Mila, p. 4) e che finalmente saranno riconosciuti i meriti del compositore e, in subordine, quelli del direttore d’orchestra. Non direttore d’orchestra/compositore ma compositore/direttore d’orchestra, dunque. Mila pronuncia quel “fra cent’anni” nel 1975 durante una serie di trasmissioni radiofoniche (poi confluite nel libro einaudiano). Di anni da allora ne sono passati quasi cinquanta,siamo a metà tragitto; si spera che non debba trascorrere un altro mezzo secolo. Ma quel “fra cent’anni” esprime anche il convincimento che la musica di Maderna sia destinata a rimanere nel tempo.
Avanguardia dell’espressione
Maderna è rimasto a lungo impigliato in un duplice equivoco: il direttore d’orchestra impegnatissimo che dedica forzatamente alla composizione il tempo residuo; l’avanguardista che strizza l’occhio al passato in nome dell’espressione (quindi troppo avant per i detrattori della Nuova Musica, poco avant e moderato, al contrario, per i sostenitori del ‘partito’ opposto). Sono polemiche ormai lontane, ma ricordarle aiuta a capire l’idea che della musica aveva Maderna.
La pietra dello scandalo era data proprio dall’espressione. Berio ricorda che negli anni Cinquanta a Darmstadt, quindi nella stagione clou del serialismo, Maderna sosteneva come necessità “l’espressione dei sentimenti”. Il che è altro, ovviamente, dal sentimentalismo. (Luciano Berio, Bruno e la gioia di far musica (1975), in Id., Scritti sulla musica, Einaudi, Torino 2013, p. 314.)
In una illuminante conversazione con Leonardo Pinzauti (1972, un anno prima della morte), Maderna ribadisce che la musica è un “fatto espressivo”, diversamente da Stockhausen, per esempio, il quale, dialogando proprio con Pinzauti, aveva paragonato la musica a una “nuova scienza” e negato che la musica sia espressiva, né che debba essere tale (che lo Stockhausen ‘mistico’ sia lì a smentire lo Stockhausen paladino della musica come nuova scienza aprirebbe un capitolo a sé). E va oltre, Maderna, dicendosi pronto a sventolare la propria bandiera e saltare il fosso – l’immagine è maderniana – per ribadire, con tanto di punto esclamativo, che “la musica è solo romantica!”. Benché qui Maderna non vada certo preso alla lettera, non fino in fondo, almeno: un’affermazione del genere ha una funzione oppositiva rispetto a chi considera il fare musica in termini esclusivamente oggettivi. (Si può leggere la conversazione con Pinzauti in C’erano nove oscillatori…, a cura di Paolo Donati e Ettore Pacetti, Rai Eri, Roma 2002, pp. 88-95.)
L’espressione è il risultato parziale di un percorso che rimane sempre in movimento e calato in un preciso contesto storico: procede di pari passo sia con gli strumenti e le tecniche di una determinata epoca (e meglio se quegli strumenti sono innovativi e le tecniche avanzate) sia con l’indispensabile forza propulsiva dell’inventiva e dell’immaginazione. E l’avanguardia è il passato che si trasforma in un presente già proiettato nel futuro. Lo scarto netto, la rottura completa può valere come una dichiarazione di poetica, ma il passato, che lo si voglia o no, continua a parlare anche nelle esperienze più radicali, e non riconoscerne la voce diventa allora un atto di malafede. La storia della musica è una e dobbiamo averne, di conseguenza, una visione unitaria. Questa, in sintesi, la posizione maderniana.
Sempre nella ricordata conversazione con Pinzauti, Maderna nega che Darmstadt e il serialismo siano equiparabili a un “anno zero”, in quanto nella storia della musica non esistono anni simili, semmai dei cambiamenti rilevanti – delle svolte, insomma – che imprimono altre e decisive direzioni, per esempio l’Orfeo di Monteverdi.
Espressione e forma
L’espressione pone il problema della forma. Se l’espressione è ciò che si ha da dire, la forma è il come dire. Per Maderna l’espressione è il contenuto che rifiuta la forma come involucro astratto, avendo lui in mente, piuttosto, una forma rigorosa ma flessibile. E’ significativo che Maderna parli di “glorificazione della forma” a proposito della musica aleatoria, nella quale la forma è mobile, interpretabile, combinabile e in divenire. A Maderna preme allontanarsi dalla forma precostituita e imposta come una sorta di calco buono per usi diversi.
Questa prassi compositiva, maturata attraverso il lavoro diretto sul suono nello Studio di Fonologia della Rai di Milano, e che prevede anche l’improvvisazione (verifica di intuizioni immediate a partire dalle suggestioni fornite dalla materia-suono), è applicata da Maderna non solo alla musica elettronica ma alla musica strumentale: “Io termino il lavoro di composizione con le prove. Dopo questa prima escursione ci sarà un percorso fissato, ci saranno delle possibilità di variazione” (YouTube: Un’ora con Bruno Maderna p.II)
Canto aulodico
Maderna non lo dice ma un “anno zero” – anzi, l’anno zero di ogni anno zero – esiste anche per lui e coincide con le origini stesse della musica, che sono insieme storiche e mitologiche. Quella di Maderna è un’arcata che risale il corso del tempo, andando idealmente dagli orizzonti aperti dall’avanguardia giù giù fino al luogo dove tutto è iniziato: la Grecia antica.
Maderna va presto in cerca della musica come melos e canto. La prima tappa da segnalare si ha nel 1948 con le Tre liriche greche, per soprano, coro e strumenti (nella traduzione di Salvatore Quasimodo, Canto mattutino di autore anonimo, Le Danaidi di Melanippide, Stellato di Ibico), composte sotto l’influenza delle Liriche greche (1942-1945) di Luigi Dallapiccola e, in particolare, della seconda parte del ciclo, Sex carmina alcalei, per soprano e 11 strumenti. Qui, fra l’altro, e per la prima volta, Maderna non si limita a musicare i versi ma li frammenta e li rimonta, insistendo, inoltre, sulla ricorrenza di alcune parole chiave. I testi diventano così una costruzione a loro volta musicale, in congiunzione con la parte strumentale.
Del 1950 è invece Composizione n. 2, per orchestra, dove il materiale di base, esposto all’inizio dal corno inglese, è fornito dall’Epitaffio di Sicilo. Inciso su una stele funerearia databile al II secolo a.C-I secolo d.C. e rinvenuta in Anatolia nel 1885, l’Epitaffio di Sicilo è considerato, fra le testimonianze più antiche della musica occidentale che ci siano pervenute, anche quella più completa. Comprende un epigramma (Un’immagine, io, la pietra, / sono; mi pone / qui Sicilo, / segno durevole / di un ricordo immortale), l’epitaffio vero e proprio con una melodia frigia (Finché vivi, splendi, / niente ti affligga: / la vita dura un attimo. / Il tempo richiede il suo tributo) e una dedica a Euterpe (Sicilo a Euterpe), musa della musica.
Successivi tributi maderniani al mondo greco, e dichiarati fin dai titoli, sono Aulodia per Lothar (1965), per oboe d’amore e chitarra ad libitum (brano dedicato all’oboista Lothar Faber, che per Maderna era l’oboe così come Severino Gazzelloni era il flauto); Grande Aulodia (1970), per flauto e oboe soli con orchestra; Dialodia (1972), per 2 flauti o 2 oboi o altri strumenti (un antecedente della dialodia è individuabile, in fondo, in Musica su due dimensioni, 1958, che prevede un flauto live in dialogo con un sé stesso preregistrato).
Il termine “aulodia” potrebbe tranquillamente comparire come sottotitolo di molte composizioni, a cominciare dai tre Concerti per oboe e orchestra (1962, 1967, 1973). L’aulodia: ovvero una linea monodica chiara, nitida, precisa, essenziale. Risiede qui la tanto agognata “melodia assoluta” di Maderna. Oppure, il che è lo stesso, la sua poesia priva di parole.
L’aulodia era il canto accompagnato dall’aulos, strumento antenato del flauto (ma soprattutto dell’oboe, in quanto strumento ad ancia), secondo la mitologia inventato da Atena e poi dalla dea abbandonato perché, soffiandovi dentro, le guance le si deformavano. In Maderna l’aulodia diventa un modello archetipo, l’idea stessa del canto, anzi della musica tutta intesa come canto.
Grande Aulodia è l’apoteosi del canto aulodico. Grande per la durata (sette episodi aleatori che scivolano l’uno nell’altro per una durata complessiva di trenta minuti circa); per le dimensioni dell’orchestra; per l’impegno richiesto ai due solisti, i quali, alternando vari strumenti delle stesse famiglie del flauto o dell’oboe, ingaggiano un corpo a corpo con una controparte in possesso di mezzi notevolmente superiori ai loro. Dopo il prologo, in cui i due solisti disegnano una sorta di ‘alba del suono’ senza l’orchestra, questa entra in gioco come una nemica particolarmente aggressiva (secondo quanto prescrive lo stesso Maderna in partitura).
Tranne qualche eccezione l’orchestra attraversa territori estranei al canto dei due solisti: si va, per esempio, dal citazionismo iniziale in chiave deformante di valzer viennesi (allusione scoperta a una società che si è ormai disfatta) a passaggi dall’incedere militaresco (il potere), fino ad approdare – come indicato da Maderna – al “massimo di eterofonia” (raffigurazione, invece, del caos imperante nella moderna società). Solamente nell’epilogo i due solisti e l’orchestra trovano un’intesa: prima l’orchestra fa da sfondo alla dialodia intrecciata dal flauto e dall’oboe, poi gli archi creano “un misterioso alone “ (Maderna in partitura) all’esecuzione dei due protagonisti, esecuzione che avviene ormai “con nessun tempo, come in una estasi interiore” (ancora Maderna).
Il finale della Grande Aulodia esprime l’utopia di Maderna: l’individuo non è assorbito da un corpo sociale indistinto ma fra l’uno e l’altro versante – quello soggettivo e quello collettivo – si realizza una condivisione di intenti.
Aura, linea continua, silenzio
Nell’aulodia greca l’aulos accompagnava virtuosisticamente la voce; nell’aulodia maderniana i discendenti dell’aulos – l’oboe e il flauto – si sostituiscono alla voce nel dipanare una monodia che tende all’infinito.
Citando uno dei capolavori orchestrali dell’ultima fase, Aura (1972), per orchestra, il cui iniziale mormorio degli archi sembra raffigurare un mondo lontano che non conosce ancora il canto ma lo prepara, l’aulodia per Maderna è l’aura – dal greco aúra, “soffio”, “respiro”, dettaglio non trascurabile se riferito ai due strumenti a fiato eletti da Maderna a principali interpreti del canto aulodico. All’aulodia è associabile anche l’atmosfera rarefatta e trasparente – e con cenni o squarci lirici – che appartiene solo a Maderna e che si manifesta in particolare nelle Serenate (fra le quali spiccano la Serenata n. 2, 1957, per 11 strumenti, gemma di postwerbnismo imperfetto; la Serenata per un Satellite, 1970, e la Juilliard Serenade, 1971, queste ultime, invece, due pietre preziose aleatorie).
Nel cammino maderniano verso un canto che si vorrebbe ininterrotto, prendono rilievo due brani elettronici composti nello Studio di Fonologia, Notturno (1954) e, soprattutto, Continuo (1958), costruito su un suono similflauto, “un unico suono”, nelle parole di Maderna, “prodotto elettronicamente che passa attraverso ventidue stadi di lenta e graduale elaborazione” e che traccia, appunto, una linea continua.
Se l’aulodia maderniana si identifica nel canto dell’oboe e del flauto, non possiamo comunque dimenticare che lo strumento di Maderna enfat prodige della musica è stato il violino. La predilezione per l’oboe e il flauto non ha rimosso nel compositore aulodico lo strumento dell’infanzia (Widmung, 1967, per violino; Concerto per violino e orchestra, 1969, Piece pour Ivry [il violinista Ivry Gitlis], 1971, ancora per violino solo).
Molte composizioni di Maderna iniziano con il suono che ‘esce’ e sale da lontano e si concludono ‘in dissolvenza’. Spostandoci sul piano visivo, è come scorgere un’immagine che si presenta sfocata, si delinea a poco a poco, prende sempre più forma e infine svanisce, lasciando però un alone di attesa. Proprio nel Concerto per violino e orchestra Maderna indaga sul silenzio come in nessun’altra delle sue composizioni. Anche questo concerto va dal silenzio al silenzio ma qui acquistano forza alcuni dettagli suggestivi scritti in partitura e che si stagliano come lapidarie dichiarazioni di poetica.
Dopo una parte orchestrale aleatoria che cresce lentamente e poi deflagra (una “introduzione all’introduzione”; Maderna), il violino inizia con il sol grave della quarta corda (al confine con il silenzio) e via via ascende toccando il limite più acuto e spingendosi persino oltre: “continuare sempre oltre la tastiera il più intenso possibile. Rimarrà l’intensità senza il suono!” Questa esortazione è un passaggio cruciale in cui suono e silenzio convivono. Dopo vari episodi conflittuali fra il solista e i cinque gruppi in cui l’orchestra è divisa, spetta al violino, assecondato da un gruppo d’archi “in echo”, arrivare all’epilogo “come un meccanismo che ha esaurito la carica”
Nel Concerto per violino e orchestra – che, grosso modo, anticipa lo schema della Grande Aulodia: dal silenzio al suono, conflitto solista/i-orchestra, risoluzione del conflitto, dal suono al silenzio – il silenzio si mostra come l’altro ‘volto’ del suono. E la conclusione, naturalmente, non è soltanto l’estinzione del suono ma racchiude un nuovo possibile inizio – un nuovo fenomeno di “irradiazione” ed “emanazione” sonora. Il Silenzio è dunque un’intensità: quella del Suono che momentaneamente tace.
E siamo allora ad Ausstrahlung (1971), termine che nella lingua tedesca significa “diffusione”, “trasmissione” o, appunto, “irradiazione”, “emanazione”. Costituito da sette blocchi aleatori e composto per voce femminile, flauto e oboe obbligati, grande orchestra e nastro magnetico, questo ennesimo capolavoro maderniano si muove su piste antiche gettando inoltre un ponte fra Oriente e Occidente (prima esecuzione a Persepoli nel 1971, sotto la direzione dello stesso Maderna). La parte testuale assembla frammenti dell’Avesta (IX-VII secolo a.C.), del matematico, filosofo e poeta Omar Khayyam (XI-XII secolo), del poeta sufi Saadi (XII-XIII) e li utilizza in inglese, francese, italiano, tedesco, spesso in forma recitata; mentre varie voci sono registrate su nastro magnetico (da quelle delle figlie di Maderna che ripetono più volte So wunderbar (“Così meraviglioso”) alle voci che declamano i testi in lingua persiana.
Dopo il giovanile Requiem (1946), opera sorprendente che già rivela il Maderna che sarà – qua e là si possono cogliere, in versione embrionale, la futura cantabilità maderniana e la mano davvero unica nel costruire architetture cristalline – Ausstrahlung è la composizione più misticheggiante di Maderna, non solo per i testi scelti ma per la concezione del suono che la sorregge, evidente fin dal concetto di irradiazione/emanazione. La melodia iniziale dell’oboe è come se riprendesse un discorso mai spezzato, andando a inserirsi nel continuum cosmico.
Alter ego della voce
Resta da chiedersi perché Maderna abbia avvertito l’esigenza di trovare nell’oboe e nel flauto – e soprattutto nel primo – degli alter ego alla voce. Chiamare in causa la supposta universalità della musica come linguaggio universale che, a differenza della parole, non ha bisogno di traduzione per essere compresa, sarebbe un’ipotesi semplicistica. La musica, al pari delle parole, può lasciare indifferenti o essere travisata o non compresa affatto, e questo nonostante le intenzioni espressive – proprio come nel caso di Maderna – o i propositi di comunicazione immediata per raggiungere un pubblico quanto più vasto possibile.
L’interesse di Maderna per la parola è indubitabile; basta percorrere il catalogo delle opere per avere conferma di quanto poeti, scrittori, filosofi e teologi abbiano contato (ricordiamo almeno, in ordine di apparizione: Cardarelli, Verlaine, lirici greci, Kafka, Gramsci, Lorca, Hölderlin, Erasmo, Lutero, Khayyam, Saadi, Boswell, Shakespeare, Petronio).
Né va trascurata la ricerca sui fonemi. Dimensioni II. Invenzione su una voce (1964), su fonemi di Hans G. Helms e con la voce di Cathy Berberian, è tutt’altro che un episodio occasionale e si colloca, piuttosto, nel quadro di un lavoro più esteso sulla parola e sugli elementi che la compongono. Si pensi anche ai brandelli di conversazione quotidiana inseriti nei pezzi elettroacustici (Le rire, 1964; Tempo libero, 1974). Sostituire alla voce uno strumento significa allora, per Maderna, testimoniare il proprio ruolo di compositore ‘puro’ che, lavorando sul suono, trasforma il suono in canto. Per questa ragione l’aulodia e la melodia assoluta sono anzitutto un canto strumentale, non vocale.
Date queste premesse non deve allora stupire se in Hyperion (1963-1970), dall’omonimo romanzo epistolare di Hölderlin, “lirica in forma di spettacolo” che impegna Maderna per quasi un decennio con diverse versioni, varianti, integrazioni, la parte del protagonista non è affidata a un cantante ma a un flautista, secondo una soluzione peraltro già adottata in Dom Perlimplim ovvero Il trionfo dell’Amore e dell’immaginazione (1962), opera radiofonica in un atto da Lorca. Il flautista ha il compito di interpretare il Poeta portatore di ideali di armonia e giustizia (Hölderlin inizia a scrivere Hyperion nel 1792 sotto l’influenza della Rivoluzione francese; canta inoltre la bellezza e la natura come comunione divina con il Tutto, valori, questi ultimi, racchiusi nella figura salvifica della donna amata, Diotima).
Il Poeta/flautista si contrappone a una società ostile (così come, nelle composizioni successive a Hyperion, i solisti si scontreranno con l’orchestra), fatica a farsi ascoltare, affronta vari elementi di disturbo e si ritrova prima ingabbiato poi al cospetto di una congegno meccanico, simbolo di una società disumanizzata, oltre che prefigurazione di ulteriori derive future. L’apparizione di Diotima è per lui un’ancora a cui aggrapparsi. Di fronte a Diotima, un soprano che intona un’Aria che è il vertice della vocalità maderniana, il Poeta accetta di retrocedere a comprimario accompagnandone il canto.
La prima rappresentazione veneziana alla Biennale del 1964 con la regia di Virginio Puecher si conclude con il flautista che abbandona sì la scena, ma eseguendo un assolo con l’ottavino. Quell’andarsene suonando non è dunque una resa. Il Poeta, portatore di ideali che i più non raccolgono, non può e non deve arrendersi, benché, il suo destino non preveda tanto un’affermazione sociale, quanto una condizione di voce fuori dal coro.
Molti ruoli sul palcoscenico del mondo
Ages (1972), ovvero le età e i ruoli della vita sul palcoscenico del mondo. Lo spunto di questa “invenzione radiofonica” per voci, coro, orchestra ed elaborazioni elettroniche, che Maderna ha tratto dalla commedia shakespeariana As you linke it (Come vi piace) avvalendosi della collaborazione di Giorgio Pressburger, proviene dal celebre monologo di Jacques nel secondo atto (scena settima), in cui si descrive il mondo come un palcoscenico – All world’s stage – sul quale si entra e si esce, interpretando esistenze diverse finché non si consumano tutte le età a disposizione.
Maderna non ha potuto consumare tutte le età. Ha avuto a disposizione una vita relativamente breve, benché ad alta intensità, nella quale ha ricoperto molti ruoli: il direttore d’orchestra dal repertorio vastissimo generoso nell’eseguire i lavori dei colleghi; il didatta appassionato; il compositore, anzi, più compositori in uno: il nostalgico compositore aulodico e l’entusiasta ‘pioniere’ di Darmstadt, della musica elettronica, delle forme aperte; e, ancora, il compositore moralmente e civilmente impegnato (la cantata Vier Briefe, 1953, per soprano, voce di basso e orchestra su quattro lettere: di un condannato della Resistenza, di un industriale, di Kafka a Milena [Jesenská], di Gramsci alla moglie); il compositore difensore dell’individuo e critico nei confronti della società e del potere (oltre a Hyperion, gli Studi per “Il Processo” di Kafka, 1950, per voce recitante, soprano e orchestra, sulla minaccia di un potere imperscrutabile che tiene in ostaggio i singoli; il radiodramma Ritratto di Erasmo, 1970, su testi di Erasmo, Lutero, Ulrico di Hutten, Giovanni Calvino, in cui il libero pensiero è alle prese con l’autoritarismo delle istituzioni, qui rappresentato dalla Chiesa di Roma; l’opera in un atto Satyricon, 1973, da Petronio, raffigurazione di una vita sociale degradata, in cui il successo mal vissuto, l’ostentazione, la volgarità, una fraintesa libertà di costumi sono comportamenti consolidati); infine il trascrittore (Vivaldi, Frescobaldi, i virginalisti inglesi, Giovanni Gabrieli, l’Orfeo di Monteverdi e l’Orfeo dolente di Domenico Belli, ma l’elenco è incompleto).
Si potrebbe immaginare il sistema Maderna e i vari ‘personaggi’ e ruoli che ne sono parte come una partitura aleatoria: al centro, il compositore aulodico; intorno, in rotazione e in interazione, le diverse altre personalità, manifestazioni di quella principale.
Echi e visioni di un congedo
Lamine d’oro
calano dai pioppi
mentre tu giaci
Ritmi s’intrecciano a ritmi
echi sonori…
Un prato di lamine d’oro
per un corpo
fatto leggero
Allora lo spirito ha luogo
dove le lamine
non hanno più peso
non cadono più
Questi versi, tratti da una poesia (Non dire malattia), forse l’unica di Maderna, scritta negli ultimi mesi di vita se non nelle ultime settimane, sono inclusi fra i testi di Dedica (1985), composizione di Giacomo Manzoni per flauto, voce di basso e orchestra sinfonica. Gli altri testi, tutti brevissimi, sono due frasi pronunciate da Maderna durante una conferenza del 1960 (che Manzoni utilizza in francese: La musique une symbiose de désirs et matière / excitation de désirs et leur complète satisfaction), un’annotazione del 1939 tratta dal diario (La passione che mi distacca dalla natura) e due versi dal Tao Te Ching contenuti nella pagina che Maderna stava leggendo nell’ultimo giorno di vita: Alla nascita l’uomo è debole e dolce… / quello che è debole e dolce sta in alto. (Pour Bruno. Memorie e ricerche su Bruno Maderna, a cura di Rossana Dalmonte e Mario Baroni, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2015, pp. 307-310.)
Le due frasi della conferenza pulsano di una vocazione coinvolgente ed esuberante per la musica; la frase del diario pone l’accento sullo slancio e sulla necessità di vivere la passione, moto tutto umano che differenzia dalla natura; i versi del Tao ricordano l’evanescenza della vita che sconfina nella fine.
I versi di Maderna evocano invece un mondo bucolico che è una sorta di Eden (Un prato di lamine d’oro / per un corpo / fatto leggero). Questi versi sono, consapevolmente, un cerchio che si chiude, ma sono anche il mondo pacificato dell’aulodia e della “melodia assoluta”.
dicembre 2018 © altremusiche.it
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