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Veterano dell’informazione sulle musiche meno convenzionali, sia per la carta stampata («il manifesto» e «L’Espresso») che per la televisione (Tg3), Mario Gamba ha da poco pubblicato una raccolta di saggi dal titolo “Gli ultraterrestri – Musiche della rivoluzione globale” (Cronopio, 2008). Uno scambio di mail iniziato per caso si sviluppa nell’intervista sul presente delle musiche “altre” (e non solo) che qui riportiamo.
Nella trattazione del tuo “Gli ultraterresti” accosti musicisti di diversa estrazione, molti dei quali molto vicini al nostro campo di interessi, sia quelli personali che più in generale del nostro sito come Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, Musica Elettronica Viva, Sun Ra, William ed Evan Parker o i più giovani Fausto Romitelli, Pan Sonic, Aphex Twin… Ovviamente i rimandi sono molto più ampi, ma quello che ci preme sapere se ti senti un “ascoltatore totale”, cioè un onnivoro della musica oppure se è stata tua professione che ti ha portato, dopo anni, a diventare tale.
«Ascoltatore totale mi piace come definizione, o meglio: come indicazione di un orientamento. Non mi sento però onnivoro. Sono stato, più per esigenze di mestiere che per propensioni mie, ma in parte anche per questo secondo motivo, un onnivoro nel senso di comprendere nei miei ascolti e nella voglia di analisi e di opinioni tutti i tipi di musiche, dal pop italiano (ho avuto tanti anni fa una passione per Patty Pravo e per Loredana Berté) al repertorio sinfonico e operistico fino alle musiche contemporanee sia di derivazione jazzistica sia di derivazione “colta”. Ma sono queste ultime aree che hanno sempre rappresentato i miei campi di interesse principale. Oggi lo sono in maniera pressoché esclusiva. Un po’ per desiderio vero e proprio un po’ per stanchezza rispetto a un sovraccarico di ascolti che negli anni mi ha decisamente annoiato. Scrivo di musiche in qualche modo attribuibili a queste aree sul “manifesto” e me ne sono occupato nei miei due libri, “Questa sera o mai” (Fazi, 2003) e “Gli ultraterrestri”.
Non credo che esse siano circoscritte, che rimandino a una limitazione, a un territorio chiuso, anzi credo il contrario: si trova lì la più grande apertura, la più proficua “deterritorializzazione”. D’altra parte, seguire il jazz di oggi e quello passato più attuale (vale qui il discorso fatto negli “Ultraterrestri” a proposito di Sun Ra), la “contemporanea” di oggi e quella passata più attuale (v. sopra per quanto riguarda il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza), la “total improvisation”, qualche espressione della “nuova elettronica” (negli “Ultraterrestri” discuto criticamente questa definizione, da molti riferita solo agli sviluppi della techno e simili) mi sembra già abbastanza impegnativo… Lungi da me ogni aristocraticismo, s’intende: Nico è importante quanto Stockhausen».
Spero mi perdonerai il risvolto personale. Però questa tua chiusura mi ha riportato alla mente un dibattito interno alla redazione della rivista “Auditorium” (ora estinta), pubblicato sul n.8 nel 1991 (Ere geologiche fa). Mio fratello Andrea, all’epoca uno degli animatori della rivista, terminava un intervento volto a spezzare una lancia in favore della maggiore capacità di interpretazione del nostro tempo da parte del rock e di certa musica di massa rispetto allo studio di Friburgo e all’IRCAM. L’intervento si chiudeva proprio così: “a Stockhausen preferisco i Pere Ubu…”. Curioso no? Stockhausen come eterno contraltare del mondo della musica popular, quando poi è sempre stato uno degli autori più aperti e possibilisti nei confronti di molti di quei generi. Molto di più di Luigi Nono, che si è pure preso del “coglione” da un cantautore come Claudio Lolli. Altri tempi, però c’è sempre stato un difficile rapporto tra musica di massa e musica di ricerca. Tu cosa ne pensi?
«Per la verità Luigi Nono non era così chiuso verso le musiche “popular”. Mi dispiace citare lavori miei, ma in una intervista riportata nel volume “Questa sera o mai” lui tratta ampiamente il suo ideale di “indefinitezza”, di suoni senza altezze precise, di note che diventano “campi sonori” e come esempio di una propensione di questo tipo cita Jimi Hendrix. In un capitolo dello stesso volume critico duramente la sordità e l’ignoranza di molti musicisti “colti”, anche illustri e avanzati (mi soffermo su Abbado, Boulez e Pollini), rispetto al rock e in generale alle musiche di provenienza “popular”, e colgo di nuovo l’occasione per contrapporre la curiosità manifestata da Nono citando Hendrix alla chiusura dogmatica di Abbado (“il rock non è musica”, si era lasciato scappare in una dichiarazione alla stampa). Molti anni prima (l’intervista è di fine ottobre 1988), nell’estate 1977, avevo Nono accanto a me nel settore riservato alla stampa nello stadio di Bologna per il concerto di Patti Smith. Che poi Lolli abbia dato del “coglione” a Nono è solo l’esempio di quanta ignoranza e superficialità e stupidità si trovino in tutti gli ambienti musicali. Tutti.
In ogni caso io ho nominato Stockhausen per dire un compositore “colto” importante. Potevo nominarne un altro. Vero che era un musicista molto aperto e curioso. Interessante è il fatto che negli ultimi anni lui sia diventato un idolo dei giovani amanti della “nuova elettronica”, così come è interessante il fatto che questa porzione di pubblico abbia mostrato uno spontaneo interesse per alcune musiche contemporanee “colte”, ad esempio in occasione dei concerti della London Sinfonietta durante i quali alcuni autori Warp erano accostati a Stockhausen (appunto), Ligeti, Ives, Cage. La diffidenza tra ambiente della musica di massa e ambiente della musica di ricerca rimane. Ma ci sono segnali significativi di ampliamento delle prospettive. D’altra parte molti prodotti della “nuova elettronica”, per esempio, si possono tranquillamente considerare musica di ricerca. I giochi si fanno complessi, intricati, sfumati, vertiginosi in qualche caso. Poi bisogna considerare le situazioni per l’ascolto. Chiaro che il rituale mummificato dei concerti “classici”, con gli orchestrali vestiti da pinguini, l’obbligo di stare zitti e immobili, ecc. non potrà mai rompere la diffidenza del pubblico dei concerti rock o dei concerti di techno. Appena i modi di ascolto dal vivo vengono modificati, resi più sciolti e godibili, la diffidenza diminuisce. In ultima analisi va detto che questa diffidenza dell’ambiente “popular” è molto più accentuata – e giustamente – verso la musica “colta” di repertorio che verso la musica “colta” di ricerca di oggi. Nella quale si possono trovare (vedi Fausto Romitelli) richiami ai materiali, ai moduli, ai climi sonori che sono familiari agli appassionati di techno o di “nuova elettronica”, ed è chiaro che non mi riferisco ai pasticci demagogici di “contaminazione”».
Stiamo entrando nel vivo del presente musicale. Ovviamente c’è da parte nostra un’enorme stima nei confronti di Nono – così come nei confronti di Abbado. Se ci sono state delle prese di posizione critica sulle musiche popular credo che si possa anche imputare all’incapacità di penetrarne il senso più intimo, oppure di non essere stati in grado di operare una selezione che mettesse da parte l’enorme quantità di immondizia che oggettivamente il “sistema popular” produce. Stiamo però sul versante delle musiche di ricerca, che è poi quello che ci interessa. Se a proposito della nuova elettronica la figura di Stockhausen può considerarsi come quella di un padre un po’ severo, ma in certi casi aperto e benevolo, come ti spieghi ad esempio che molti compositori italiani – e in questo il nostro paese è stato davvero all’avanguardia – attendano ancora un riconoscimento sia da parte della nuova scena elettronica? Penso, oltre a Nono, anche a Berio, Maderna, ma anche Grossi per la computer music ed Evangelisti per l’improvvisazione. Merito del “marketing” di Stockhausen?
«Il fatto è che per nuova elettronica s’intende comunemente una serie di esperienze musicali che sorgono, evolvendosi in maniera assai ampia, dal rock e dalla techno e affini. Qualcuno definisce questa musica “elettronica sperimentale”. Ad esempio il musicologo e filosofo Christoph Cox in un saggio pubblicato in traduzione italiana nel volume “Millesuoni. Deleuze, Guattari e la musica elettronica” (Cronopio, 2006). Cox, dopo aver delineato una genealogia di questa “elettronica sperimentale” che comprende tutte le musiche innovative dal primo ‘900 in poi, restringe il campo degli ingredienti dell'”elettronica sperimentale” a: house, techno, ambient, noise. Naturalmente l’aggettivo “sperimentale” a me sembra particolarmente fuori luogo in questo caso. E’ un aggettivo che funzionerebbe benissimo già per lo Stockhausen di “Gesang der Jünglinge”, per i Berio e Maderna dello Studio di Fonologia della Rai negli anni ’50, per tantissimo Cage, per Cecil Taylor dagli anni ’50 fino a oggi, per Pietro Grossi, Nono, Butch Morris, Evan Parker e un elenco di nomi lunghissimo. Casomai ci sarebbe da dire che il termine è poco usabile se non in maniera indicativa, di comodo, per intendersi. Molti lavori che contengono aperture, innovazioni, visionarietà in percentuali magari assai maggiori di quelle contenute nelle opere di Fennesz o dei Pan Sonic, sono da tempo dei classici. Il loro grado di “sperimentalità” rimane però altissimo. Insomma, il pubblico e i teorici della nuova scena elettronica sono in qualche modo prossimi all’ambiente “popular”.
Così succede che, nonostante i segnali incoraggianti di cui ho parlato prima, la conoscenza o l’interesse per ciò che accade fuori da questo ambiente non sono molto estesi. Penso che si spieghi in questo modo la non accoglienza di musicisti come quelli che tu nomini, in particolare delle loro esperienze con l’elettronica e delle loro esperienze con l’improvvisazione. Penso che i giovani consumatori di nuova elettronica sarebbero coinvolti fortemente dall’ascolto di “Visage” di Berio, tanto per fare un esempio. O da brani del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, anche di brani di Evangelisti prima dell’abbandono del pentagramma. C’è il caso Stockhausen, eletto a star o “compagno di strada” da questi stessi ascoltatori. Sicuramente hanno giocato le sue capacità manageriale e il suo carisma di “profeta”, oltre a una godibilità immediata delle sue ultime opere (penso, per esempio, a “Mittwochs-Gruss” o a “Cosmic Pulses”). Poi è servito che cicli sulle sue musiche recenti e non sian stati proposti da associazioni musicali non accademiche, come quella che cura da anni il festival AngelicA a Bologna».
Personalmente penso che l’approccio all’elettronica produca un incrostamento ideologico che la fa considerare il mezzo tecnologia “sperimentale” solo per il fatto di configurarsi come “moderno”. Certamente l’elettronica (in senso lato) ha permesso nuovi approcci e nuove sensibilità, ma anche il sovrapporsi di molti luoghi comuni. Spesso sembra infatti che là dove l’assunto “mezzo = messaggio” viene applicato assolutamente alla lettera, la sperimentazione finisca per risultare assolutamente impoverita da una pratica digitale autoreferenziale. Non credi che oggi si riesca a fare sperimentazione meglio non tanto sulle forme, quanto sulle dinamiche di fruizione, ad esempio sulla nuova socialità reale/virtuale? Oppure anche questo approccio è ormai già invecchiato?
«Sono convinto che agire oggi in campo musicale con la motivazione alla ricerca, ma direi meglio: all’affermazione di piattaforme innovative di pensiero sul suono, aperte, costitutive di modi d’essere radicalmente opposti a quelli dominanti, corrisponda a sintonizzarsi (mai didascalicamente) con i soggetti che si vanno formando negli spazi della produzione immateriale. Qui sono in scena i linguaggi, proprio come strumenti di produzione. I produttori immateriali usano l’intelligenza, l’affettività, la creatività nella loro pratica quotidiana. Sfidano il capitale, che non può che avvalersi dei linguaggi anche avanzati e usarli a sua volta, sul terreno di una “eccedenza” delle loro forme di vita e dei modi di uso dei loro linguaggi. Questo approccio alla sperimentazione musicale, sempre che vogliamo chiamarla così, mi sembra oggi il più fecondo.
Non so se tu intendi qualcosa del genere quando parli di “dinamiche di fruizione” e di “nuova socialità reale/virtuale”. Forse non siamo tanto distanti. In ogni caso questo metodo di lavoro non mi sembra affatto invecchiato, anzi. Naturalmente implica una interrogazione sulle forme o sulla storia (ricca) di dissoluzione delle forme. Qui entrano in gioco opzioni diverse, tesi diverse: c’è chi ritiene che dopo tante rotture sia il tempo di una ricomposizione “classica” di un impegno sulle forme, c’è chi ritiene che l’abbandono del concetto stesso di forma non sia abbastanza completo e che si tratti di inoltrarsi in un regno della libertà (ogni forma sarebbe costrittiva) che forse assomiglia all’indicazione di Cage “lasciare che i suoni si mostrino per quello che sono”. A me non piace che le tesi si cristallizzino in dogmi, in canoni prescrittivi. Il Roscoe Mitchell di “Composition/Improvisation” con la Transatlantic Orchestra è coinvolto con infinita passione in una indagine sulla forma, se vogliamo, ma la materia dell’opera è completamente, magnificamente, apertura e desiderio. Non c’è rischio lì di trovarsi in un territorio chiuso.
E quanto ricche sono le “dinamiche di fruizione” nel sintonizzarsi con una realtà globale dove si percepiscono istanze rivoluzionarie che vogliono nuove forme di vita nel presente. Un esempio tra i molti possibili. Non ci sono luoghi comuni in musiche di questo tipo, soprattutto non ci sono luoghi comuni generati dall’ideologia del mezzo. E’ vero che nella nuova musica elettronica (quella che nasce dalla techno e dintorni) il rischio si corre, forse più che in altre aree musicali. Vedere la tecnologia come totem o come lasciapassare assoluto per la creatività adatta al tempo di oggi contribuisce all’incrostazione ideologica. Ma è bene tenere sempre presente che l’autoreferenzialità, l’iper-produzione di luoghi comuni sono cose che si trovano in abbondanza in ogni area musicale. Di oggi e di ieri».
Interrogarsi sulla sperimentazione penso che sia un’impresa destinata a fallire in partenza, poiché credo che valga in casi come questo il paradosso di Achille e la tartaruga di Zenone. L’oggetto sfugge sempre, non appena si raggiunge, perché un piccolo passo in avanti sarà stato fatto.
Quali “produttori immateriali” consideri però oggi maggiormente capaci di sedimentare un nuovo pensiero artistico funzionale alle generazioni future?
«I produttori immateriali sono semplicemente le persone che lavorano nei settori produttivi immateriali, in regime capitalistico. Usano l’intelligenza e i linguaggi come loro strumenti di produzione. La produzione che viene definita immateriale (servizi, comunicazione, informazione, ecc.), naturalmente materialissima, è ormai quella largamente prevalente e caratterizzante. Si parla spesso di “proletariato cognitivo” per riferirsi a questo insieme di produttori. Naturalmente se si usano espressioni di questo tipo si entra in un ordine di idee che è quello per cui un tempo si parlava di “classe operaia”. Cioè di un qualcosa in cui può entrare in gioco non solo la collocazione diretta in un ambito produttivo ma un fattore di soggettività. Qui si aprirebbe un discorso complicatissimo dato che sul concetto di “classe” si è molto discusso, si sono mossi i concetti di “classe in sé” e di “classe per sé”, ecc. Non è il caso di addentrarsi qui. Ma evidentemente non ha senso chiedere quali produttori immateriali sono maggiormente portatori di istanze o pensieri di tipo artistico.
Tutti sono a mio parere il riferimento più forte per la sperimentazione artistica, in particolare di quella musicale che ci interessa. Ma non lo sono – e questa è la novità della nuova situazione che si sta delineando col cambiamento di tipo di produzione nel capitalismo – come riferimento ideale di artisti che parlano “in nome di”. Non solo, almeno. Relazione ed espressione sono già nel modo di agire lavorativo dei produttori immateriali. E poi bisogna considerare che la distinzione tra momento del lavoro e momento della vita extra-lavoro si fa sempre più sottile, in pratica svanisce. Il dominio capitalistico si estende a tutta la vita delle persone, per questo si parla di “biopotere”. E d’altro canto di parla di “biopolitica” sia quando si osservano le forme di “governance”, di dominio del tipo”democratico” attuale, sia quando si passa ad osservare la formazione di una soggettività insorgente, sovversiva, dentro e contro questa forma di dominio. Poiché relazione ed espressione entrano prepotentemente in campo nell’agire dei produttori immateriali e nei movimenti sociali che nascono nell’epoca attuale, quella della prevalenza della produzione immateriale, la sintonia tra sperimentatori artistici (musicali) e produttori immateriali è assai viva, diretta, reciproca, propulsiva, circolare. Diciamo un contrappunto, una polifonia. Questo in termini del tutto generali, s’intende.
Resta il fatto che “l’intellettualità diffusa” e la tensione verso l’espressione che in essa si afferma non creano ancora una appropriazione dell’agire artistico sperimentale da parte dei produttori immateriali in quanto tali, ma che gli artisti (i musicisti) “specialisti” continuano ad avere un ruolo ideativo e realizzativo privilegiato. Ma a me interessa e appassiona questa sintonia. Non didascalica, come ripeto sempre, persino ossessivamente. In musica vuol dire, per me, più il Butch Morris di “New York Sheng Skyscraper” che il William Parker di “The Inside Songs of Curtis Mayfield”, più l’Helmut Lachenmann di “Concertini” che il Giorgio Battistelli di “Miracolo a Milano”. Non so se il paradosso di Achille e la tartaruga, che tu evochi piacevolmente, e che è certo suggestivo nei discorsi sulla sperimentazione che stiamo facendo, è davvero puntuale. Mi pare che presupponga l’idea di progresso. Lineare. Ma forse no: si può vedere come la constatazione che accadono molte più cose nuove sotto il cielo della sperimentazione musicale, addirittura mettendo in forse la parola stessa “sperimentazione” (tutto si fa composito, inafferrabile, molteplice), di quanto comunemente si creda. Basta pensare alla miseria intellettuale di un Gino Castaldo, ostentata nel suo recente libro “Il buio, il fuoco, il desiderio” dove viene suonato per l’ennesima volta il ritornello della “morte della musica”, morte provvisoria in attesa di una resurrezione che non si sa quando verrà, per il semplice motivo che il nostro patentato critico ignora la più gran parte delle musiche interessanti e nuove (e perturbanti e sconvolgenti e rivoluzionarie) che circolano nel mondo».
La “morte della musica” suona come altre morti: quella dell’ideologia, ieri, della politica, oggi. Molte persone della mia generazione sono state avvelenate da questo “becchinismo” capace solo di togliere la voce a chi vuole sottoporsi all’esercizio di miglioramento del reale. Personalmente vedo in questo (soprattutto nel nostro Paese) una lotta generazionale più drammatica che in passato. Uno scontro cioè tra quelli che hanno potuto formarsi in un “prima”, per poi raccogliere il frutti in un “dopo”.
Ci sono due immagini fantastiche che, a mio parere, segnano in modo inequivocabile lo spartiacque tra questi prima e dopo: la prima è una scena del film del 1972 “Tout va bien” (“Crepa padrone, tutto va bene”) di Jean-Luc Godard. In quella lunga scena, tutta incentrata su un unico piano sequenza, si riprende un’interminabile file di casse di un supermarket, mentre sul retro accadono cose di minor conto (una rivolta studentesca). Le immagini che abbiamo del ’68 sono quelle in bianco e nero delle piazze, mentre forse è altrove che si faceva la storia e Godard l’ha intuito.
La seconda è quella celeberrima di Pasolini a Sabaudia nel 1974 che individua nel passaggio alla civiltà dei consumi il vero punto di svolta, più traumatico perfino del fascismo. Uscire da questa linearità non sembra facile, sebbene, concordo, è su un nuovo “contrappunto” creato da “intellettualità diffuse” che si deve fondare l’arte e la cultura del futuro. Ammesso che non ci si imbatta in analfabetismi o dogmatismi di ritorno…
«Non credo che si stia assistendo a una lotta generazionale. L’itinerario restaurativo che ha riguardato numerosissime persone passate attraverso quella vera rivoluzione che è stata il ’68 dimostra che aver fatto l’esperienza di un “prima” non basta. D’altra parte è sempre nel presente che si giocano le carte di grandi trasformazioni. Queste carte occorre giocarle confrontandosi con i nuovi assetti dei poteri. Il problema di Pasolini ai miei occhi è proprio questo: aver concluso in una esaltazione della memoria e di certi costumi antichi (le “lucciole”) le sue analisi apocalittiche della società dei consumi. Trovo diverse nel tono alcune opere di Godard che si soffermano su questioni analoghe: c’è un’assenza di moralismo, uno spirito sovversivo-paradossale che le rendono assai più stimolanti. Ma la dimostrazione che non basta aver vissuto, magari dal di dentro, un “prima” pregnante è proprio Castaldo. Che cosa gli serve aver osservato il ’68 dal lato politico e sociale e dal lato musicale – da Hendrix a Coltrane, da Miles a Cage – se oggi finisce nella banalità della “morte della musica”?
Dici benissimo che queste ricorrenti predicazioni funerarie vanno di pari passo con il pensiero unico (e le azioni coercitive ai limiti del golpe, ormai) sulla fine di ogni possibilità di cambiamento radicale. A parte il fatto che io la parola “ideologia” preferisco sempre intenderla alla maniera classica marxiana (occultamento dei processi sociali reali) invece che alla maniera gramsciana (concezione del mondo, corpo organico di idee per agire nella società) e infatti ciò che mi piace dell’Onda è la sua natura non ideologica. Hai ragione di temere analfabetismi e dogmatismi. Il movimento reticolare globale nato a Seattle e oggi assai variegato (in ogni caso, per il momento, intermittente, persino “volatile”) ha tutto per evitare questi inconvenienti. Ma la critica della politica, momento importante del ’77 e del femminismo in particolare, non ha scavato ancora abbastanza. Appena si formano gruppi necessariamente organizzati in seno a questo movimento è abbastanza facile vedere spuntare i leaderini, i grandi maestri tradotti in formule dagli allievi, le scelte tattiche imposte agli spiriti liberi che vogliono guardare avanti in ogni caso. E l’analfabetismo lo vediamo già in atto per quanto riguarda la musica. Che è come il solito la più disgraziata delle arti, quella sempre usata come accompagnamento, sottofondo, al massimo didascalia (magari di iniziative bellissime e coraggiose), mai come “testo”, mai per la ricchezza di pensiero che vi si può rinvenire. Dico questo pensando ai consumi musicali prevalenti nei centri sociali, anche quelli più qualificati: dj, techno, elettronica standard. La matrice “popular” comunque obbligatoria. Ma questo movimento di intellettualità diffusa, di avanguardia diffusa dico io, o è, in modo vitale, sciolto, leggero, nella complessità (come afferma tracciando il proprio identikit) o non è».
marzo 2009 © altremusiche.it / Michele Coralli
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