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Meira Asher ha fatto la sua comparsa nei circuiti nazionali attraverso una serie di perfomance sorprendenti e un paio di cd come Dissected e Spears into Hooks, che hanno colpito, soprattutto per i contenuti angosciati, riferibili alla difficilissima realtà israelo-palestinese. Quel mondo, in cui la musicista è nata e cresciuta, continua ad essere il principale motore di ispirazione dell’universo poetico della Asher, che con Infantry, progetto che si spinge ben oltre ai precedenti, vuole rappresentare la manipolazione e lo sfruttamento dei bambini a scopi militari, una delle tante mostruosità che il mondo moderno sembra voler rimuovere dalla nostra percezione. Incontriamo Meira Asher e Guy Harries in conclusione dell’ultima perfomance italiana.
Vorremmo saperne di più di quello che avviene sul palco durante l’esecuzione di Infantry (Sub Rosa – SR 165).
«Abbiamo lavorato parecchio sui suoni in precedenza. Abbiamo cercato di catturare quelli che maggiormente ci interessavano: ovvero voci di bambini, suoni del corpo, versi e urla. Poi li abbiamo registrati e trasformati elettronicamente, tanto da renderli di difficile correlazione con il suono originale. Ma ci sono anche molti suoni sintetici, che vogliono riprodurre la realtà che vorremmo descrivere. Lavoriamo con un programma XP per live electronics e con diversi sampler che vengono manipolati in continuazione. Ma ci sono anche diversi oggetti come una macchina da scrivere che viene microfonata, amplificata e successivamente processata come uno strumento musicale».
Come mai la scelta di una macchina da scrivere?
«Ovviamente la sua presenza è correlata al soggetto della nostra performance, che consiste in un progetto nato per dare voce alle angosce che suscitano lo sfruttamento dei bambini in diverse parti del mondo. Nel nostro spettacolo abbiamo rappresentato alcune scene in cui diversi tipi di manipolazione, che molti bambini sono costretti a subire, vengono riprodotti attraverso suoni e immagini. La nostra attenzione è andata soprattutto al problema dei bambini-soldato, come caso esemplare di sfruttamento infantile (il titolo infantry = fanteria ricorda molto da vicino infancy = infanzia, NdR). In questo senso tutti i differenti oggetti utilizzati nella performance sono in relazione con il soggetto del nostro lavoro, come tutti quei suoni che sono stati registrati a partire dal mondo dei suoni dell’infanzia. Questi ultimi, così come quelli degli strumenti acustici (voce e percussioni), servono da traccia per l’esecuzione delle parti elettroniche. La macchina da scrivere, in particolare, è da mettere in relazione con la produzione dei rapporti, che vengono normalmente redatti dall’esercito. Tutta la perfomance è piena di suoni che vogliono evocare il mondo militare, come rumori di motori, esplosioni, pezzi di metallo che vengono percossi e così via».
La parte visiva è un elemento molto importante nello spettacolo. Ce ne vuoi parlare?
«I video contengono dei frammenti di immagini che vengono controllate a seconda dei diversi momenti musicali. Si possono vedere (ma anche ascoltare) attrezzi medici all’opera, libri per bambini, grafici militari e così via. Fuori dall’aspetto della rappresentazione, lo schermo è un identità che serve alla comunicazione; è una cosa su cui il pubblico non deve soffermarsi troppo e, per questo motivo, il segnale è molto disturbato. Abbiamo lavorato appositamente sui disturbi per evitare di ricreare un ‘effetto TV’. Ci sono parti filmate, ma gran parte di quello che si vede avviene in tempo reale».
Usate anche un network di telelcamere.
«Sì, ci filmiamo, inquadrando quello che l’altro sta facendo. La videocamera diventa nella perfomance uno strumento vero e proprio. L’effetto che vorremmo ricreare è quello di una realtà insana, la stessa a cui sono sottoposti moltissimi bambini nel mondo».
La perfomance dal vivo è molto diversa dal disco?
«Credo che attorno a questo progetto ci siano state diverse tappe. Prima è avvenuta la produzione del cd, poi una serie di performance dal vivo, arricchite dall’elemento visuale, poi anche una rappresentazione, ‘Infantry Cut’, priva di elementi video. Posso dire che, pur cambiando molti elementi, la percezione del progetto rimane sempre la stessa».
Parlaci del disco allora.
«Il cd è un oggetto di plastica. Ciò che si trova al suo interno è la migliore versione per documentare quello che hai creato. L’esperienza di ascolto di questo documento dovrebbe essere ciò che dà il senso alla cosa, più che la spiegazione di ciò che questo documento contiene. Oggi siamo costretti a spiegare tutto, ci sono più spiegazioni che cose in sé. Non credo che le esperienze finali debbano essere trasmesse, come invece si cerca di fare in televisione. Così anche gli ascoltatori di un disco come Infantry dovrebbero percepirlo attraverso il modo di sentire che è proprio della loro sensibilità, non attraverso il mio modo di sentire. Ti faccio un esempio: io credo che se, poniamo, Bin Laden, ascoltasse questo disco e si convincesse a rinunciare ai suoi bambini-soldato, o se altri bambini prendessero coscienza fuggendo dal paese che li obbliga a combattere, allora tutto questo potrebbe essere un buon risultato per il mio disco. Tutto ciò è frutto della soggettività. Tra gli ascoltatori si crea una sorta di esperienza catartica, molto individuale. Così è inutile che io anteponga la mia esperienza davanti a quella degli altri».
Io, non lavorando per la TV, credo nella comunicazione attraverso i media, i quali non sempre sono negativi di per sé, nonostante i loro diversi limiti, anche deontologici. Sono d’accordo con la soggettività della fruizione di un prodotto artistico, ma credo anche nella possibilità di dare un’interpretazione alla rappresentazione, soprattutto nei casi in cui l’arte è utilizzata per dire qualcosa.
«Ma l’arte possiede un potere di per se stessa. Non credo di dovere aggiungere una sola parola una volta che ho completato un pezzo. Naturalmente questo è quello che penso io, ma la stessa cosa più non essere valida per te. Forse è anche per questo che Infantry non ha goduto della stessa esposizione sui media italiani, di quella che ha avuto il mio precedente. Probabilmente molti critici non sono stati sufficientemente attenti a quello che potevano trovarci dentro, ma al contrario, lo hanno considerato un disco troppo difficile da ascoltare. Io credo che invece sia un’esperienza d’ascolto completa. Magari per qualcuno è un’esperienza terribilmente claustrofobica. Per quanto mi riguarda posso dirti che si tratta di una rappresentazione del destino avverso, tratteggiato in un modo assolutamente essenziale».
novembre 2002 © altremusiche.it / Michele Coralli
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