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La & records, la vostra neonata etichetta canadese, esce con due lavori, entrambi molto ben curati ed entrambi ispirati a una costruzione del suono basata sulla ciclicità di strutture rumoristiche. In questi ultimi anni il rumore sembra definitivamente esploso in gran parte delle produzioni artistiche contemporanee. Quanto ha influito secondo te l’elettronica nel determinare un’estetica del continuum sonoro/rumoristico?
«Mi sembra che, in quest’ottica, la posizione di John Cage (e di qualcun’altro) sia centrale. Però, più che l’elettronica (in termini d’estetica musicale), penso che sia stata la tecnologia digitale ad aver contribuito all’integrazione definitiva del rumore nello spazio sonoro. Il medium stesso è il centro di questa rivoluzione musicale: “the medium is the message” diceva giustamente Marshall McLuhan. L’inizio degli anni ’90 potrebbe essere il punto di partenza più probabile: il digitale – attraverso i cd, i primi laptop, studi portatili e altri utensili musicali non analogici – diventa rapidamente uno strumento audio accessibile e indispensabile. Questa innovazione tecnologica chiude definitivamente l’era analogica. L’elettronica, grazie alle sue risorse, diventa quindi un’estetica influente. Anzi, il digitale ci ha liberato da quell’ossessione tipicamente analogica nei confronti del rumore (cioè il rumore di fondo, il soffio, tutto quel rumore considerato come parassitario); il rumore non è più considerato come un tabù, non è più odiato, diventa potenzialmente estetico. I “room tones” e altri “buzz” elettrici assumono uno statuto di nobiltà, del tutto inaspettatamente, d’altra parte. Anche il “glitch”, quest’altro “errore sonoro involontario”, ha approfittato di questa liberazione digitale. La vecchia gerarchia dei suoni considerati come musicali, rispetto a quelli “non musicali”, è stata abolita. Cage trionfa».
Non possiamo non considerare la vostra vicinanza estetica, ma anche fisica, con Ambiances Magnétiques. La & records risponde a un’esigenza più radicale rispetto quell’esperienza che sembra ampliare il campo a musiche di diversa estrazione? Ci parli della tua esperienza con AM?
«Non direi che ci sia un’esigenza radicalizzatrice dietro la creazione dell’etichetta. Essenzialmente si tratta d’un progetto artistico iniziato da Fabrizio Gilardino e me stesso. Un desiderio comune d’inventarci, con molta modestia, un nuovo spazio di creazione e diffusione. “Just what the world needs… Another record company”, scriveva Frank Zappa nel 1969, quando mise in piedi Bizarre Productions. Da qualche anno a questa parte il pianeta è infestato dal proliferare di nuove, piccole etichette che vedono la luce ogni giorno, senza sosta, in modo quasi esponenziale. Ciò mi piace… Mi sembra una proliferazione potenzialmente poetica. &records è uno spazio di ricerca, e la ricerca, la sua stessa ragion d’essere… Posso immaginarmi facilmente &records nella stessa genealogia familiare di Ambiances Magnétiques. Del resto, Fabrizio e io stesso, ne siamo ancora e sempre strettamente associati: Fabrizio continua a collaborare con loro come direttore artistico e grafico e io vi faccio ancora uscire dei dischi, com’è il caso per uno dei miei prossimi progetti, che ha per titolo “Flat Fourgonnette” (molto vagamente, musica country alla mescalina). Sono ancora, e lo sarò sempre, un membro del collettivo di Ambiances Magnétiques. Quest’etichetta è un ottimo esempio di “successo parallelo” e poi, senza Ambiances Magnétiques, qualche anno fa, probabilmente non sarei mai riuscito a pubblicare alcunché».
Nella musica elettronica attuale, ma forse non solo in quella, uno dei principi plasmanti forse più determinanti è il concetto di spazio, sia reale che mentale. Esiste secondo te una musica in se stessa, libera dall’idea o dalla suggestione che può generare?
«Una musica che esistesse solo per se stessa dovrebbe comporsi in modo autonomo, senza intervento umano, e sarebbe al tempo stesso il suo solo fruitore e referente. Se una tal musica esistesse non potremmo mai ascoltarla. Peggio per noi. Il melomane e il critico inevitabilmente generano un’interpretazione. Le idee che s’associano abitualmente a una musica in particolare sono in genere proposte dall’ascoltatore, non dal compositore. La musica è, dal punto di vista semantico, piuttosto relativa, debole nei suoi enunciati, meno precisa del linguaggio visuale o delle parole stesse, ma resta comunque strettamente legata alle idee e suggestioni del compositore come alle diverse interpretazioni dell’ascoltatore. Per quanto riguarda il concetto di spazio, ti dirò che, essenzialmente, la musica è un’arte del tempo, ciò che gli uomini hanno inventato di meglio per contrastare l’ineluttabilità del tempo che trascorre. E tutto ciò funziona piuttosto bene: quest’arte infonde elasticità al tempo che passa. Nella musica, le questioni di spazializzazione sono sempre rimaste secondarie. Forse, grazie all’inarrestabile ottimizzazione delle tecniche di riproduzione sonora, le preoccupazioni legate alla spazializzazione, al concetto di spazio sonoro, aumenteranno. Questa non è che l’alba…».
Quanto influisce l’idea dello spazio sonoro nella tua musica? Sia quello in cui la tua musica vivrà, sia quello che la tua musica sarà in grado di evocare…
«Non ho alcun controllo su ciò che la mia musica potrebbe evocare. Ed è un’idea che mi piace molto. Sesso stellare? Pensieri immensamente stupidi? Chi lo sa? In quale spazio sonoro la mia musica vivrà? Spero che si tratti d’uno spazio frequentato da spiriti radicali liberi… Lo spazio sonoro si rifà a una logica di profondità e di campi: vicino, lontano, che ruolo può giocare il silenzio. E poi non si devono dimenticare le dinamiche d’ampiezza sonora: le nozioni di spazio ne sono dipendenti. L’ascolto attivo, insomma».
Il tuo lavoro “63 apparitions” è stato composto per una coreografia, quindi si tratta di una musica funzionale in qualche modo. Quanto cambia il tuo modo di lavorare in caso come questo?
«Tutta la musica è, a priori, funzionale. Assolutamente. La musica è un’arte funzionale: contribuisce al benessere dell’anima, funzione necessaria esercitata da almeno 60000 anni. L’arte per l’arte è una strana utopia. Però una musica composta per una coreografia fa parte del nostro quotidiano. Musica e danza sono due forme d’arte strettamente associate: la danza, spaziale, si nutre di musica; la musica, temporale, si libera a contatto della danza. Non conosco musicisti che non sorridano quando vedono gente ballare sulla loro musica e mi sembra una funzione assai nobile, quella di comporre per uno spazio coreografico.
Comporre per una coreografia è naturalmente diverso che comporre per un matrimonio, una celebrazione militare o un corteo funebre. E’ decisamente più gaio… Ti dirò che l’interazione interdisciplinare mi pare molto stimolante, basta citare alcuni nomi, John Cage / Merce Cunningham, Tom Waits / Robert Wilson, Igor Stravinskij / Vaslav Nijinski, Nino Rota / Federico Fellini, Morton Feldman / Samuel Beckett… Cambia, il mio modo di lavorare in un caso come questo? Il mio lavoro di composizione cambia sempre e comunque…».
Nel disco vengono citati due autori come Cage e Satie, che sono sempre stati legati a qualcosa di esterno alla musica, ma così strettamente correlato alla loro musica. Perché loro due?
«Semplicemente perché mi sono essenziali. Al tempo stesso esteriormente e strettamente connessi…».
novembre 2004 © altremusiche.it / Michele Coralli
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