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La progressiva perdita del controllo di sé attraverso un percorso psicotico che ripete gesti e movimenti. La rievocazione delle difficoltà di orientamento nei labirinti della memoria che struttura tutto in maniera apparentemente confusa e contraddittoria prendendosi gioco della nostre capacità di verifica. Il conflitto tra una persona e il suo doppio. La progressiva perdita del senso della realtà attraverso il riproporsi di inveterati movimenti replicati.
L’opera da camera One, musica, libretto e video di Michel van der Aa, annichilisce gli ampi spazi della scena ridimensionandone le ampiezze nella claustrofobia di una sgabuzzino mentale. Unica e splendida protagonista il soprano Barbara Hannigan che, coperta da una semplice veste, a piedi nudi e scarmigliata – cosa che non le toglie fascino – tiene una scena capace di mettere a durissima prova l’interprete, sia dal punto di vista gestuale che da quello strettamente musicale. A fianco un arredamento malinconico costituito da un tavolo e una sedia. Dietro due schermi che proiettano le immagini di lei (con cui si determinano duetti video/reali concitati e incalzanti) e di cinque donne anziane che ripetono in maniera ossessiva lo stesso sogno (ma è poi un sogno?). Tutto si mescola e il racconto delle cinque donna anziane finisce per diventare la realtà della protagonista, che nel suo doppio in video è destinata a un invecchiamento istantaneo, sotto gli occhi degli spettatori delusi dall’avvizzimento di tale bellezza.
La musica di van der Aa, allievo di Andriessen, è costruita naturalmente tutta attorno alla vocalità della Hannigan, che offre doti virtuosistiche davvero invidiabili, soprattutto nell’enorme capacità di controllo di una partitura schizofrenica che urla, parla in modo nevrotico, disturba attraverso dei cortocircuiti elettronici, lascia scarse pause all’interprete, che per un’ora viene spremuta in modo drastico. Ma è la dimensione performativa dell’opera a lasciare un segno di grande poesia multimediale. E più di tutto questo avviene nella breve sequenza in cui la protagonista, con una torcia in mano e buio diffuso, punta delle parti dello schermo che a sua volta “risponde” con la proiezione di un oggetto, dando la sensazione di un’attivazione che nella realtà non esiste.
Quando la tecnologia non riempie i vuoti, ma crea contenuti, soprattutto interagendo con la forza espressiva dell’uomo. Non per creare protesi attorno al nulla, ma per diventare arte essa stessa.
novembre 2005 © altremusiche.it
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