Mike Westbrook on “Platterback” [intervista]

Michele Coralli

Mike Westbrook arriva in Italia per la presentazione del suo lavoro Platterback, un “music theatre piece”. Unica data italiana al Teatro di Portaromana, all’interno della rassegna MilanoOltre. Cinque musicisti, tra cui la moglie Kate, diventano sul palco attori che rappresentano cinque personaggi diversi, uniti dall’esperienza di un viaggio comune. Westbrook ritrova in questo piccolo ensemble un risvolto più intimistico, una dimensione raccolta rispetto alla grande orchestra, a cui ci aveva abituato nelle sue più recenti apparizioni in Italia. Ma anche l’esperienza della Brass Band non è conclusa come dice lui stesso in questo nostro incontro.

Incominciamo dal suo ultimo lavoro, recentemente presentato al Teatro di Portaromana a Milano: Platterback.

«Platterback è qualcosa di completamente nuovo che appartiene a quel concetto musicale a cui in realtà sono interessato da molti anni ormai, ovvero la combinazione tra il jazz e il teatro. Per certi versi, e in forma limitata, mi sono avvicinato a una situazione che potesse trarre spunto dall’opera nel far convivere musica, recitazione e costumi. In passato siamo già stati coinvolti in tre o quattro opere, che, come in questo caso, potremmo definire cabaret jazz ovvero composte soprattutto da canzoni a carattere melodico con temi musicali di un certo tipo. Gran parte di quest’ultimo lavoro comprende questo tipo di scrittura: le canzoni cercano di esplorare le diverse tipologie dei personaggi e i differenti modi di rappresentarli. Ho sempre scritto per duetti, piano e voce, per trio con l’aggiunta di un sax, per gruppi allargati e per grande orchestra. Ma c’è un altro aspetto interessante che potremmo definire come appartenente alla sfera della “musica povera” che si combina con la poesia e il teatro. Platterback ne è un esempio: in questo gruppo abbiamo in realtà cinque performers che partecipano alla scena e devo dire che siamo stati fortunati a trovare delle persone seriamente interessate a questa idea di spettacolo. Abbiamo allora indossato dei costumi, abbiamo creato dei brevi dialoghi, un poco di recitazione e tutti cantiamo. Così è stato possibile creare una sorta di gruppo teatrale jazz, ecco perché ci chiamiamo Westbrook & Company, nome che suggerisce l’idea di una compagnia teatrale».

Ci parli della Company allora.

«Per me è stato uno sviluppo davvero esaltante proprio per il fatto che la formazione che utilizziamo è inusuale. Tutti i musicisti hanno fatto parte della big band, che non suona molto spesso, e questa è la prima volta che ci troviamo insieme in questa forma: al violoncello c’è Stanley Adler, alla fisarmonica Karen Street, voci soliste sono John Winfield e mia moglie Kate, io suono il piano e la tuba in qualche brano. Questa è senz’altro una formazione abbastanza atipica nel jazz, ma proprio per la natura stessa dei musicisti, penso che funzioni molto bene. Abbiamo curato particolarmente gli arrangiamenti. Come lei sa, ho lavorato con formazioni di ottoni e sassofoni per tutta la mia vita e naturalmente sono molto affezionato a quelle esperienze. Ora però sento che quello di Platterback è un esperimento molto rivitalizzante».

Da dove nasce quella storia?

«Platterback ha un libretto scritto da mia moglie Kate, che racconta la vicenda di cinque personaggi impegnati in un viaggio. Essi rappresentano rispettivamente le diverse fasi della vita».

Come mai la scelta di quei cinque personaggi in particolare? C’è un soldato, una cuoca, un bibliomane punk, un truffatore e un poeta.

«L’idea originaria è basata su un’esperienza reale che abbiamo avuto viaggiando in Svizzera. Una volta, infatti, abbiamo incontrato dei musicisti brasiliani in treno e si è fatta parecchia musica insieme durante quel percorso con chitarre e sassofoni. E’ stato un viaggio musicale, fatto insieme a persone che non si sarebbero più riviste. Dalle montagne fino alla pianura. Per me è stato come un graduale ritorno alla normalità della città. Così ne è nata un’idea molto semplice. I personaggi di Platterback sono cresciuti dal workshop che abbiamo inaugurato all’inizio di quest’anno».

La figura del soldato ricorda vagamente quella del Woyzeck, anche se molto meno drammatica di quella.

«Penso che ci siano molti precedenti di questo tipo. Uno dei miei lavori preferiti è L’Histoire du Soldat di Stravinsky».

Platterback si può considerare quindi più una sorta di teatro jazz che un’opera moderna?

«Certe definizioni sono molto difficili. Tutto quello che faccio è jazz, ma non vuol dire che non apprezzo la musica classica o il folk. Il jazz è la tecnica che utilizzo e questo implica l’improvvisazione, che ha un carattere strutturante. Non si tratta certo di un’impostazione da scuola contemporanea. C’è molta improvvisazione. Scrivo canzoni o pattern costruiti su strutture blues, ma le tecniche sono sostanzialmente jazz, anche se per comodità si potrebbe definire Platterback, se la cosa fa piacere, un’opera. Ci troviamo però in un’area tradizionalmente diversa da quella».

Michael Mantler ha da poco pubblicato “una sorta di opera” – così da lui definita – intitolata The School of Understanding.

«Sì, ne ho sentito parlare. Mi hanno detto che è molto pessimistica».

Anche molto didascalica. Lei cosa pensa del fatto che molti musicisti in una fase matura della propria esperienza artistica siano sedotti dall’idea di scrivere un’opera o, come nel suo caso, una rappresentazione musical-teatrale?

«Per me è stato uno sviluppo inevitabile poiché ho iniziato a comporre per grandi orchestre jazz, poi ho scritto canzoni e successivamente ho iniziato a ricevere commissioni per lavori teatrali e per film. Ne ho proprio recentemente ricevuta una per un’opera in Inghilterra in occasione dell’anno 2000. Sembra che lo sviluppo verso le grandi forme musicali sia davvero una splendida sfida. Ma devo dire che apprezzo la musica a diversi livelli: sia quando suono in gruppo, sia quando con Kate ci esibiamo in piccoli club dove troviamo contesti molto intimi e spontanei. La cosa importante per me, a prescindere dalle forme, è ciò che riesco ad esprimere nella musica. Credo di provare differenti emozioni, tutte ugualmente soddisfacenti, ogni volta che suono con formazioni diverse».

Lei ha spesso lavorato a progetti su commissione. Le è congeniale questo tipo di situazione?

«Quando il Festival du Theatre Contemporain di Losanna (1984, ndr) ci ha proposto di fare un lavoro su Rossini abbiamo scoperto una nuova possibilità di sviluppo. Così ci siamo dedicati a quel progetto per qualche anno. Una volta che si è instaurato quel meccanismo, abbiamo ricevuto altre commissioni come quella del Comune di Reggio Emilia riguardante il progetto sulle musiche dei Beatles (pubblicate poi in Off Abbey Road, Enja 1990, ndr), a cui probabilmente non mi sarei mai dedicato, se non mi fosse stato suggerito di farlo. Penso che sia ragionevole per un musicista suddividere il proprio lavoro tra commissioni legate a particolari temi od occasioni e lavori composti e concepiti autonomamente. Della mia produzione cito The Cortège, On Duke’s Birthday oppure London Bridge is Broken Down, che è un lungo pezzo per orchestra. Ma sono davvero moltissime le composizioni che nascono direttamente dalla nostra esperienza e non su commissione. Platterback, ad esempio, non ci è stata suggerita da nessuno. Recentemente ci è stata commissionata la composizione per un grande coro vocale, basato su una nuova traduzione da Ovidio. Penso che nell’arte ogni musicista deve trarre vantaggio da ogni tipo di situazione per farne tesoro. Diventa infatti anche un momento di confronto su certi temi che diversamente non si sarebbero affrontati. Una bella sfida, davvero. Poeti come Shakespeare offrono l’opportunità di scrivere della grande musica».

Lei si è confrontato anche con testi di William Blake.

«Non è stata una mia idea, bensì, anche in quel caso, una proposta per una rappresentazione teatrale (si tratta di Tyger del 1971 con la regia di Adrian Mitchell, messo in scena dal National Theatre Company, ndr). Per me è stata un grande piacere avvicinarmi a quel grande poeta».

Qual’è stato il suo poeta preferito, dal suo punto di vista di compositore?

«Trovo davvero difficile rispondere a questa domanda. Sicuramente Blake mi ha coinvolto moltissimo, tanto da spingermi a reincidere quel lavoro con Enja (The Westbrook Blake – Bright as Fire, originariamente del 1980, ndr). Ma non ho più scritto su liriche di quel poeta per anni. Lavoriamo più spesso su testi originali, anche se non possiamo definire poesia vera e propria. Cortège, in cui c’erano testi di Rimbaud, Lorca e altri, rimane uno dei miei lavori preferiti. Ma anche in London Bridge, all’interno del quale convivono tre differenti lingue (francese, inglese e tedesco) ci sono esempi di poesia davvero interessante».

Quali sono i progetti che riguardano la sua grande orchestra?

«Non abbiamo lavorato insieme per oltre un anno, ma adesso uscirà un nuovo album».

Per quale etichetta?

«La Enja. Si tratta di una raccolta di registrazioni dal vivo. Penso che sia interessante dal momento che abbiamo selezionato alcune delle migliori performance dell’orchestra registrate di recente. Il problema di presentare l’orchestra in tournée è unicamente economico. E’ impossibile farla suonare in giro al di fuori del circuito dei festival, come abbiamo fatto recentemente in Galles e in Finlandia. Al momento tutta l’orchestra sta riposando e ciò mi rende molto triste. D’altronde è nella natura delle cose».

da: “Auditorium reviews”, n.4, 1999 © altremusiche.it / Michele Coralli

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