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C’è chi li segue da più di venticinque anni, cioè da quando sulle scene si è affacciato quello strano movimento che solennemente si autoproclamò Rock in Opposition, un circuito di musicisti che volevano liberarsi dai molti compromessi pretesi dall’industria discografica. I canadesi Miriodor, originari di Quebec City, assieme a molti altri gruppi per lo più europei, come gli italiani Stormy Six, gli inglesi Henry Cow, i belgi Univers Zero e i francesi Etron Fou Leloublan, crearono un network di sostegno e promozione per un tipo di rock che si differenziava dal mainstream per varietà di ispirazione, complessità formale e contenuti politici.
Il “RIO sound” continua oggi a vivere attraverso una rete basata sulla condivisione di valori socio-economici, culturali e musicali, che attualmente si sostiene attraverso altri canali, certamente meno radicali. Anche se molti circuiti progressivi hanno trovato la via del compromesso con il mercato, gente come i Miriodor possono serenamente festeggiare oggi il loro venticinquesimo compleanno continuando a proporre una musica poco accomodante, che non si usura nel tempo, ma che trova sempre nuovi motivi per rinnovarsi. Parade (Cuneiform Records) è il doppio CD che festeggia l’anniversario. Si tratta di un’uscita doppiamente significativa per via di una discografia, quella del gruppo canadese, davvero centellinata. Parliamo di presente e passato con tre dei componenti del gruppo: lo storico fondatore Pascal Globensky, tastierista, Nicolas Masino, bassista e tastierista aggiunto e Bernard Falaise, chitarrista.
Pascal, mi dicevi che Miriodor non è un gruppo molto interessato alla tecnica o, per lo meno, la tecnica non costituisce l’approccio privilegiato. Qual è allora l’elemento più importante della vostra musica?
Pascal Globensky: «La tecnica di per sé non è il nostro interesse principale. Ci piace molto invece convogliare una serie di immagini nella nostra musica, anche se non usiamo né parole, né testi di riferimento. In questo senso la tecnica diventa semplicemente un modo per raggiungere questo scopo. Sotto certi aspetti, si può considerare la nostra musica come la partitura per un film bizzarro».
Bernard Falasie: «Credo che Pascal intenda dire che non ci interessa singolarmente suonare in modo tecnico o virtuoso, e penso, nel mio caso, a quello stile chitarristico molto freddo e veloce. Il nostro massimo piacere è dato invece da un modo di suonare forse virtuoso, ma solamente in un senso collettivo. Ci interessa soprattutto un buon senso dell’umorismo in musica».
Nicolas Masino: «Penso che l’idea principale che sta dietro a Miriodor non sia quella di dimostrare i sorprendenti virtuosismi dei suoi membri o lasciare lo spazio a ciascuno per i suoi dieci minuti di assolo. Semmai è quella di dar vita a una musica il cui interesse principale risiede nella sua composizione, nei suoi arrangiamenti, nei rari overdubs, nelle strane sfasature di metrica o nei timbri. Il virtuosismo sta all’interno delle composizioni stesse, quando non è semplicemente contrapposto alla brillantezza del singolo musicista impegnato nella sua parte».
Miriodor ha venticinque anni di carriera alle spalle. Nel gruppo sono transitati molti musicisti e apparentemente molte cose sono cambiate. Credo invece che la vostra musica abbia mantenuto la freschezza dei primissimi tempi. Qual è l’ingrediente segreto della vostra ricetta?
PG: «Beh, non credo di possedere una ricetta, semplicemente la chiave di quello che facciamo sta proprio nel nostro approccio molto intuitivo, anche se la nostra musica può sembrare cerebrale a molti. Io e Rémi Leclerc, siamo nel gruppo fin dall’inizio e credo che questo ci abbia aiutato a mantenere coerente una nostra identità, tanto quanto la nostra firma».
BF: «Come ingrediente che funziona benissimo mi verrebbe da dire che è fondamentale divertirsi mentre si compone e mettere sempre alla prova anche le idee più stupide, perché non si può mai sapere se anche queste possono funzionare bene».
NM: «Comunque grazie per il complimento. Se la nostra musica è ancora così fresca, forse il fattore più importante è proprio quello di non avere alcun tipo di ricetta. Ogni brano ha una storia a sé e ogni album riflette il punto in cui ci troviamo in quell’istante della nostra vita. Nel momento in cui noi cambiamo, sia come individui che come musicisti, anche le nostre capacità creative mutano. Se in certi casi un’idea suona come una cosa che si era già fatta, a quel punto si scarta. Un buon modo di affrontare la questione credo che sia sempre quello di provare a sorprenderci, preoccupandoci anche di preservare ciò che sentiamo appartenere a un’estetica Miriodor».
Le vostre formazioni hanno compreso organici che andavano dal semplice trio al settetto. Nel vostro ultimo disco ci sono diversi ospiti che allargano ancora di più il giro. Sembra che le compagini allargate siano congeniali a gruppi come il vostro. Fino a che numero vi piacerebbe arrivare?
PG: «La formazione da sei è quella più congeniale per noi. E, in effetti, la prima vera formazione dei Miriodor era un sestetto, così come è ora, anche se a volte aggiungiamo un fagottista. D’altro canto siamo stati in tre per dieci anni e come trio abbiamo fatto un sacco di cose. A pensarci bene abbiamo toccato tutti gli abbinamenti possibili: da due a sette. Credo che questo gruppo abbia, e sicuramente continuerà ad avere, un’identità multidimensionale. È come una squadra allargata, anche se, personalmente, non mi spingerei oltre gli otto elementi».
BF: «In Portogallo, al Gouveia Art Rock Festival, sul palco eravamo anche in otto, assieme al fisarmonicista Lars Holmer e al fagottista Michel Berckmans. Troverei molto difficile suonare in un numero superiore, anche perché ci sarebbero non pochi problemi nel monitorare il palco, ma non solo. In studio invece si può fare quello che si vuole, l’unico scoglio è il budget. Però i Miriodor con un complesso d’archi, una sezione fiati e un quartetto di theremin, perché no? Non sarebbe male».
NM: «A volte i grandi ensemble non sono agili e veloci come i piccoli gruppi e te ne puoi accorgere se ascolti i lavori di Zappa per orchestra sinfonica. Non hanno la stessa tensione che puoi trovare, per esempio, in “One Size Fits All”. In certi casi la formazione può diventare troppo grande, anche se noi siamo molto lontani da quel punto. In altre parole dipende molto anche dalle capacità tecniche e dal livello di coinvolgimento di tutti i musicisti che partecipano al progetto».
La scelta di aver dato alle stampe in tutti questi anni così pochi dischi dipende forse da una certa “densità” musicale che ha la vostra musica?
PG: «Abbiamo realizzato sei dischi in venticinque anni, ma questo è dovuto al fatto che i Miriodor non sono un’occupazione full-time per nessuno di noi. Siamo tutti legati ad altri gruppi e ad altri progetti. C’è troppo poco tempo: non più di dieci ore alla settimana. E lavorando in questo modo, ci vuole molto per produrre un album di sessanta minuti di questa musica. Anche per via del lunghissimo processo di composizione collettiva del gruppo. D’altro canto, se lavorassimo assieme per più tempo, forse raggiungeremmo un livello di sopportazione tale da non poter riuscire a stare più insieme. Quindi anche le programmazioni meno fitte hanno i loro vantaggi».
Nella vostra musica niente sembra lasciato al caso, ma, al contrario, scritto in ogni dettaglio. Proprio a proposito di Zappa, non vi sentite un po’ zappiani?
BF: «Sì, credo che si possa confrontare la nostra con quella di Zappa in quanto completamente composta. Anche noi abbiamo rare sezioni in cui i musicisti possono esprimersi in modo relativamente libero. La differenza principale rispetto alla musica di Zappa è che la sua era scritta da una sola mano, mentre i Miriodor hanno un approccio collettivo alla composizione. Pascal, Nicolas, Rémi ed io lavoriamo parecchio insieme e ognuno porta dei suoi elementi. Non si tratta però di musica scritta, visto che alcuni membri non sanno leggerla, ma alcune parti sono scritte per ragioni per lo più mnemoniche».
NM: «Credo di essere quello che ha subito la maggiore influenza di Zappa, dato che ho scritto una tesi su di lui. Però i Miriodor hanno questo tipo di suono intricato già da prima che mi unissi al gruppo e non credo che la mia influenza sia così significativa. Penso invece che Pascal e Rémi abbiano assimilato molte influenze più dal movimento di Rock in Opposition che da Zappa; mentre Bernard penso che sia stato influenzato da milioni di cose. Alla fine questa specie di “musica classica contemporanea rimescolata in un gruppo rock” sarà probabilmente associata alle estetiche zappiane, proprio perché lui è stato il primo musicista a scalare quella montagna».
Come vi comportate con l’improvvisazione?
PG: «In tutti i nostri album, a parte il primo, ci sono delle improvvisazioni. E ne facciamo anche dal vivo, non sempre, ma con regolarità. Per noi è sempre importante un’immissione minima di improvvisazione per controbilanciare la parte scritta della nostra musica. In “Parade” ci sono due pezzi improvvisati: Checkpoint Charlie e Getting Ready, ma avremmo intenzione di aggiungere qualche altra sezione improvvisata durante i nostri concerti, tanto per vedere cosa succede. Spesso infatti le improvvisazioni si rimescolano con il mood determinato dal resto del brano, tanto che non sembrano suonare in modo molto differente tra loro, da versione a versione».
La definirei più un’improvvisazione quindi di tipo classico, un po’ sul modello delle cadenze del concerto per strumento solista e orchestra dei tempi di Beethoven. Un’altra cosa che mi incuriosisce sempre in gruppi come il vostro è la grande varietà di strumenti usati, come è avvenuto anche in Parade.
PG: «Sì, in effetti sono molti: tastiere, due bassi elettrici, le chitarre, batteria e percussioni, violino, octapads, un erhu (strumento ad arco cinese, NdR), sax alto e soprano, fagotto, fisarmonica, melodica, harmonium, giradischi e qualche rumore. Come vedi usiamo strumenti abbastanza “tradizionali”. Da parte mia non ho alcun tipo di tastiera vintage perché mi piace avere solamente una main keyboard, anche se mi piacciono molto i suoni vintage e provo sempre ad incorporarli nel mio set quando è possibile, soprattutto quando suonano in un modo conturbante. Nicolas suona quasi tutte le mie parti per tastiera su un Roland e un po’ di pianoforte, mentre il vecchio Fender Precision è il suo basso di riferimento. Bernard ha un set up molto semplice: due Gibson, pochi pedali con un vecchio rack e tante vecchie cianfrusaglie che fanno rumori divertenti».
Nel doppio CD Cuneiform tra le tracce studio e la parte live, registrata al Nearfest nel 2002, ad eccezione del pubblico, non c’è molta differenza. Sembrano due dischi suonati in tempo reale.
PG: «Ovviamente il CD studio non è stato interamente registrato in live. Ci sono dei multitracking delle parti di basso, chitarra, tastiere e batteria, a cui poi sono state aggiunte le melodie e qualche overdub. Pochissime manipolazioni al computer, ma non in maniera estesa, anche se “Parade” è il primo album dei Miriodor ad essere stato mixato su un computer».
NM: «In effetti però c’è molto live anche in studio, soprattutto nella sezione ritmica. Alcuni temi sono stati sovrapposti, qualche errore corretto con un punch in/out e dei piccoli eventi MIDI editati. Un brano più lungo può essere stato registrato in 3 o 4 differenti segmenti, poi rimessi insieme digitalmente. Cerchiamo comunque di mantenere un giusto equilibrio tra le migliori possibilità che offrono entrambi i mondi: quello del suono live e quello delle correzioni in studio».
In Italia ci sono sempre state due scuole all’interno della musica progressiva. Una più sinfonica e barocca, diciamo di stampo Emerson, Lake & Palmer e l’altra più sperimentale, tanto per dire alla Henry Cow. È, o è stato, così anche dalle vostre parti?
PG: «Non mi piacciono le etichette e le evito il più possibile, specialmente nell’ambito progressive, proprio perché il suo significato è stato così distorto che ormai nessuno è più sicuro di cosa si trova di fronte quando si avvicina alla musica progressiva. Per me era quella che si faceva tra il 1967 e il 1973, prima che l’industria discografica se ne impossessasse e i musicisti iniziassero a ripetersi. La musica che è stata fatta dopo questo periodo, non saprei proprio come chiamarla».
BF: «Comunque credo che sia esattamente lo stesso anche in Canada, tanto che generalmente non uso il termine progressive, proprio per essere sicuro che la gente non pensi che facciamo un revival EL&P con qualche tastierista che indossa una mantellina».
Quali musicisti italiani conoscete?
PG: «Ne conosco alcuni che mi piacciono molto come la PFM, gli Area, Il Volo. Ma sono sicuro che ce ne sono moltissimi altri che mi piacerebbe conoscere».
BF: «Io ho visto un concerto di un gruppo che si chiama Ossatura e ho anche un loro disco davvero eccellente. Conosco anche il lavoro di un ottimo batterista che si chiama Mirko Sabatini. La fama del vostro gruppo in Italia è dovuto in massima parte alla simpatia che un tempo godevano i musicisti politicizzati, come quelli che hanno aderito al movimento Rock in Opposition. Qual è la vostra idea di RIO e quale l’eredità di quel movimento nella musica di oggi?».
PG: «Attualmente RIO è più che altro un’ideologia che rispecchia un modo di fare musica totalmente priva di compromessi e questo è stato ciò che Miriodor ha sempre fatto. Quindi, senza ombra di dubbio credo che l’eredità di RIO sia rappresentata proprio dall’aver indicato una strada a molti gruppi che oggi vogliono fare musica senza individuare con rigidità alcun genere o stile».
febbraio 2006 © altremusiche.it / Michele Coralli
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