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Un nucleo con altezze molto ravvicinate genera, disaggregandosi, in un profilo melodico che si struttura via via come un motivo su cui vengono composte delle armonizzazioni. Si passa quindi, attraverso la sovrapposizione di più vocalizzi e alla costruzione di un intreccio di motivi che si attraggono e si respingono. Dopo circa venti minuti la discontinuità di un testo che viene intonato dalla medesima voce che abbiamo fin qui sentito: “who’d have thought that snow falls”. Manca agogica, mancano le dinamiche, tutto si stende uniformemente su di un tappeto vocale costruito attraverso le sovrapposizioni di 3 tracce diverse.
Stiamo ascoltando Three Voices, brano del 1982 di Morton Feldman per soprano e nastro magnetico, una delle opere, a nostro parere, più riuscite e intimamente minimaliste del compositore newyorkese. Un’opera, cioè, in cui il dato timbrico trasforma la voce in un suono prossimo a quello sinusoidale e dove le sole discontinuità vengono rappresentate dalle dissonanze armoniche che si producono dai battimenti delle tre voci che vagano libere lungo lo spettro. Un’opera messa a punto, mattone su mattone, per delimitare lo “spazio striato” – per dirla alla Boulez/Deleuze – in cui le cose succedono ripetendosi all’infinito, quindi perdendo contatto con l’evolversi del tempo, salvo poi ribadirne la sua dimensione lineare attraverso qualche cambiamento improvviso. Queste due operazioni, la ricerca sulle possibilità espressive della voce – uno strumento che, assieme allo sfruttamento dell’elettronica, incarna le più avanzate sperimentazioni del Novecento – e la perdita di dimensione del tempo, in quanto successione illimitata di istanti, costituiscono l’interesse della lettura di una composizione ipnotica come Three Voices.
2007 © altremusiche.it
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