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Un disco che suona più sudafricano di quanto la formazione, trattandosi di trio composto per due terzi da svizzeri, induca a pensare. Del resto Irene Schweizer, di cui spesso si è parlato in questo sito (a differenza di altri canali), non ha mai nascosto la sua propensione “australe” – soprattutto per merito della sua vicinanza artistica a musicisti, di grandissimo rilievo, provenienti dall’altro emisfero come Dudu Pukwana, Louis Moholo, Abdullah Ibrahim o Chris McGregor, sudafricani che hanno fatto scuola nel jazz della seconda metà del Novecento. E pare che anche l’alto sassofonista Omri Ziegele abbia sedimentato il proprio linguaggio a partire dalle radici jazzistiche africane piuttosto che dai mille rivoli europei legati alle post o trans-avanguardie, antiche e recenti. Infine Makaya Ntshoko, qui unico vero sudafricano e batterista dal curriculum professionalmente legato a molti dei nomi sopra citati (a cui aggiungiamo anche Hugh Masekela).
Per meglio mettere a fuoco l’imprinting sudafricano, distinguendolo dal corpo del mainstream da una parte e dal jazz europeo dall’altro basterebbe ascoltare la splendida Andromeda del rimpianto McGregor: pura “gioia e rivoluzione”. Un tema saltellante, ricamato su sincopi tanto naturali da poter essere scandite anche da un bambino. Il miracolo dell’ascolto si compie nel visualizzare l’allegra banda dei Brotherhood of Breath e pensare che il mondo a volte è un luogo dove la felicità sembra a portata di mano. E nell’omaggio ad altri grandi africani (e non) spiccano anche il trasparente blues di Tyntiana di Dollar Brand (alias Abdullah Ibrahim), la fulminea fanfara di Giggin’ di Ornette Coleman e le due perle conclusive di Johnny Dyani, Ithi Gqi e Mbiza, altri esempi di quel caldo umore mefistofelico dell’estremo lembo del continente nero, così lontano dal gelo metropolitano del Nord.
Qualche contrappunto di ottima fattura in alcuni temi originali frutto della penna di Omri, un languore non particolarmente appassionante e troppo di confidenziale in Can Walk in Sand e un vago sapore pacchiano, pur nella sua trasformazione in solo non banale per sax solo e voce (quella dello stesso Ziegele), in Summertime, che, come ormai moltissimi classici, suona totalmente usurato. Peccati veniali, che si fanno certamente ben volere a fronte della ventata di tepore. In tempi di clima culturale scarsamente benefico, siamo sempre alla ricerca di piccoli squarci di luce…
2009 © altremusiche.it
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