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Compositore italo-sloveno (classe 1927), Pavle Merkù ha percorso con la sua opera più di mezzo Novecento, lambendo correnti e movimenti artistici che oggi sembrano distanti da noi qualche Era geologica di musica classica contemporanea. Sì, perché la sua attività compositiva inizia nel lontano 1944, epoca in cui il tardoromanticismo è filosofia di vita (dura a morire) all’interno di accademie e conservatori. Il contesto culturale musicale è ben presto destinato a mutare anche nel nostro paese con l’avvento degli anni ’50 e Trieste, città dove tutt’oggi risiede Merkù, è uno strano luogo di contrapposte emozioni: tra isolazionismo e inevitabili influssi di frontiera. Il compositore è stato abile però nel raccogliere l’idea dello scambio tra culture appartenenti a quella frontiera, nonostante una cortina di ferro e decenni di pregiudizi. Oggi, tessere legami, oltre che facile, è obbligatorio, ma negli anni ’50 lo era un po’ meno.
Accolte allora le istanze, non solo dei modelli neoclassici come Hindemith o Dallapiccola, ma anche dei metodi dodecafonici della seconda scuola di Vienna, Merkù sintetizza, soprattutto nelle sue opere giovanili una serie di comportamenti compositivi che lo mettono in stretta relazione con autori quali Dmitri Šostakovic, soprattutto nel trattamento dei colori orchestrali, l’uso espressivo dei timbri generalmente lasciati in secondo piano, quali fagotti, corni, ma anche diverse percussioni e l’impiego pregnante della ritmicità (parametro che il Novecento riscopre in numerosissime sue potenzialità).
Ecco che allora caratteristiche come quelle appena esposte risultano qualificanti nel Concertino per piccola orchestra (1954-1957) e nel Concerto lirico per clarinetto e orchestra (1959), opere entrambe segnate da un temperamento giovanile, che ne determina il forte senso emozionale. Il Concerto per violino e orchestra (1970), denso di urti neoespressionisti, è un’opera che non disdegnerebbe di trovare collocazione all’interno del repertorio di qualche illuminato violinista, accanto ad altre opere scritte per questo strumento. Si tratta di un’opera i cui tre movimenti – dove si evidenzia una contrapposizione tra organizzazione tonale e dissolvimento armonico – sono contenuti l’uno nell’altro, in un gioco di incastro. Questo concerto, forse a causa della sua brevità (in tutto 9 minuti), non ha goduto della fortune che si sarebbe meritato. Epistola a Giampaolo de Ferra per violoncello e cinque (1972) presenta già qualche procedimento di carattere aleatorio, ma anche in questo caso è la percussività del primo e terzo movimento che si mettono in risalto attraverso un efficace utilizzo combinato di pianoforte e percussioni (quasi in una citazione stilistica di stampo jazzistico).
A completare il quadro delle composizioni per strumento solista ed ensemble orchestrale il Concerto per tromba e orchestra (1974), un’opera dai colori più pallidi, e meno incisiva della precedenti. In coerenza con gli interessi etnomusicologici di Merkù, molte sue composizioni sono venate di melodie popolari: in certi casi – Ali sijaj, sijaj, sonce (“Brilla, brilla nostro sole”) rapsodia slovena per archi (1977) – volte ad uno spirito rapsodico tipico di certe vecchie scuole nazionali, in altri tessute da una rielaborazione creativa, stimolata dalla metabolizzazione personale di stilemi e condotte appartenenti ad un mondo in via d’estinzione.
2003 © altremusiche.it
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