- Robert Wyatt: “Dondestan” - Ottobre 21, 1997
- Cassiber: “A Face We All Know” - Ottobre 23, 1996
- PFS: “279” - Ottobre 4, 1996
“Stories all start once upon the meantime” (Meantime): quasi un enunciato di poetica per l’ultimo disco di Peter Blegvad, che ha già nel titolo la dichiarazione del suo carattere affabulatorio. Piccole storie racchiuse nell’arco di una canzone, forma musicale che Blegvad da sempre privilegia anche in virtù di una notevole vena poetica nella farcitura dei testi.
Il nome del musicista inglese non è certamente nuovo a chi, negli anni ’70, seguì le gesta di gruppi come gli Slapp Happy e gli Henry Cow, culminate nell’ispiratissimo lavoro collettivo “Desperate Straights”, del 1974. Nel 1977 Blegvad realizzò insieme a John Greaves e con la partecipazione di Carla Bley e Mike Mantler l’eccellente “Kew-Rhone”, di cui curò i testi. Negli ultimi anni ha collaborato con i Golden Palominos di Anton Fier e ha avviato il progetto dei Lodge insieme al solito Greaves e ad altri fedelissimi. Prima di “King Strut” ha pubblicato tre album, l’ultimo dei quali, “Downtime”, è stato edito dalla Recommended nel 1988.
Il nuovo lavoro è composto da dodici canzoni, in cui Blegvad canta e suona la chitarra acustica in compagnia di collaboratori abituali e di quotati session men fra cui Danny Thompson, Anton Fier, Phil Shaw, Michael Blair, Peter Holsapple, l’immancabile fratello Kristoffer, Pino Palladino.
Molto buona la produzione, curata da Chris Stamey con la collaborazione dello stesso autore. I suoni fluiscono con grande equilibrio, all’insegna di una sobrietà che si apprezza ancora di più quando si ripensi alla perniciosa enfasi produttiva che aveva caratterizzato l’edizione di “Knight like this” nel 1985 presso la Virgin. Le sonorità del nuovo disco rispecchiano bene quanto ho avuto modo di ascoltare nel concerto tenuto da Blegvad quest’estate al Mean Fiddler di Londra, accompagnato dal fratello, da Phil Shaw all’armonica e da un ottimo B. J. Cole allo steel pedal. La serata aveva messo in rilievo l’orientamento del musicista verso una semplificazione del dato sonoro in favore di una maggiore intensità e immediatezza comunicativa. È in proposito significativo più di ogni discorso l’ascolto della ballata Gold, dove la voce, la chitarra acustica e la steel pedal di Cole modulano un’atmosfera di grandissima emozionalità derivante anche dall’asciuttezza dell’impianto compositivo. Sulla stessa linea troviamo On obsession: disarmante confessione amorosa in cui le parole sono accompagnate da un semplice arpeggio di chitarra appena appoggiata dall’armonica.
Accanto ad altre ballate come Swim e Meantime troviamo il macabro raccontino di Chicken, o i motivi ariosi della canzone che dà il titolo all’album e di Northern light, dove spiccano le chitarre acustiche dei due fratelli. Not weak enogh era già presente nel disco precedente: qui è eseguita con maggior pulsione ritmica e compattezza di suoni. Verso la fine compaiono delle canzoni che, a mio modo di vedere, sono un po’ troppo orientate verso stilemi e modalità musicali di marca nordamericana (l’impostazione della voce, l’uso dei cori, l’atmosfera country, la chitarra slide, ecc.). Il brano di chiusura è la ripresa della title track King Strut. In questa seconda versione le sonorità elettroniche rompono volutamente la “coerenza” determinata in precedenza, e ne risulta quasi un campione straniante e beffardo di come il disco avrebbe potuto suonare se fosse stato prodotto dalle parti della Virgin.
In chiusura di recensione esprimiamo un rammarico: che disco o cd che sia non alleghi non dico i disegni di Blegvad, che è fra l’altro un ottimo illustratore, ma almeno i testi, a meglio disvelare i contenuti poetici di una musica pure già così intrinsecamente poetica.
da: Andrea Coralli, “Navigando sui mari di formaggio”, Auditorium Edizioni, 1996
© Auditorium Edizioni / Michele Coralli
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