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Uno squalo si aggira per l’Italia (o almeno si è aggirato tra l’estate e l’autunno di questo 2018). Si tratta di quel The Yellow Shark (YS) considerato testamento musicale di Frank Zappa e non parrebbe così strano vederlo tornare a essere eseguito dal vivo, dopo la storica incisione dell’Ensemble Modern, se non fosse per il fatto che per molto tempo è rimasto chiuso in un cassetto, colpevole forse una certa ritrosia nel confrontarsi con un Family Trust spesso troppo ossessivo. Della “suite” ne sono state recentemente presentate due produzioni, entrambe vantate come “prime italiane” pur non essendolo, dato che della medesima opera zappiana la prima esecuzione nazionale appartiene a Divertimento Ensemble sotto la direzione di Sandro Gorli (fine anni ’90). Nel progetto prodotto dall’Accademia Teatro alla Scala, l’Ensemble Giorgio Bernasconi viene diretto niente meno che da Peter Rundel, protagonista del primisssimo scenario che vide una serie di concerti tra Francoforte, Berlino e Vienna (con Zappa sul palco per l’ultima volta in un paio di occasioni). Con l’odierna ripresa del progetto chiediamo a Rundel ragguagli ad uso dei futuri interpreti di YS sull’ultima fatica zappiana.
Che effetto le fa dirigere YS dopo 25 anni dalla morte di Frank Zappa e dopo 26 dalla prima mondiale? Come mai è passato tanto tempo?
Penso che esistano varie ragioni per cui non è più stato eseguito per così tanto tempo. Per quanto ne so, non riguarda solamente l’Italia, ma anche altri paesi. Qualche volta, all’interno di concerti particolari sono stati eseguiti alcuni pezzi di YS, forse due o tre, ma non l’intera opera. YS è stato sostanzialmente l’ultimo tour che Zappa fu in grado di fare. Durante due concerti fu fisicamente presente, un anno prima che morisse. Così nella memoria di molti il progetto fu molto legato alla sua persona e all’Ensemble Modern. C’è voluto tempo prima che molti pensassero che fosse necessario rieseguirlo tutto quanto nuovamente. Per quanto riguarda me, mi hanno chiesto molto spesso di rifarlo. Ma ho dovuto rinunciare perché molti produttori non erano per niente consci della sfida e dei problemi da affrontare nel realizzare quel repertorio scritto per un grande ensemble, più grande di ogni ensemble tradizionale: una via di mezzo tra l’orchestra da camera e l’ensemble. C’è anche bisogno di un’amplificazione e di un live mixing, altrimenti la musica non funziona. Per Zappa questo era assolutamente fondamentale. Per tutta la sua musica, ma specialmente per questa.
Infine non da ultimo YS ha bisogno di tanto, tanto lavoro. Di prove dettagliate, perché ci sono dei pezzi davvero molto intricati. Ho sempre avuto la sensazione, quando mi è stato richiesto di farlo, che i produttori pensassero che fosse uno spettacolo che io potessi facilmente riprodurre senza che le due cose, la cura dell’amplificazione e il numero delle prove, potessero essere garantite. YS è concepito anche come uno show, quindi ha bisogno di qualche elemento sul palco, come le luci. Ecco, queste sono le ragioni per cui YS è rimasto ineseguito per molto tempo anche in Germania e Francia…
London Symphony e Royal Symphony Orchestra. Zappa non ne ha mai parlato bene di quelle esperienze. Meglio con Boulez. Si può dire che il progetto di cui è stato maggiormente soddisfatto è proprio quello con l’Ensemble Modern. Che alchimia si era creata allora?
Questa è una storia molto lunga. Per cercare di riassumere, direi che la differenza fondamentale tra la London Symphony e l’Ensemble Interconmporain, da una parte, e l’Ensemble Modern dall’altra, fu che noi in quel momento abbiamo avuto l’opportunità, ma anche la volontà da parte di tutti noi musicisti e di una specie di back-up dei produttori partner che erano Alte Oper Frankfurt e qualche sponsor, nel poter offrire a Zappa un’enorme quantità di ore di prove. Naturalmente gli abbiamo offerto tutte le nostre attenzioni nei confronti della sua musica. Anzi, era stata proprio un’idea dei musicisti dell’ensemble quella di lavorare con lui. Quindi eravamo assolutamente consci del fatto che per noi era davvero un momento storico.
Come è avvenuto questo incontro?
Abbiamo speso più di un anno e mezzo per preparare il progetto e quando abbiamo incontrato Zappa non c’era in ballo nessuno dei pezzi che alla fine avremmo suonato. Inizialmente facevamo musica insieme, improvvisando. Lui testava la qualità e cercava di scoprire quali erano le forze individuali dei musicisti. Per cui è stato un vero e proprio processo di conoscenza sotto ogni profilo: cosa che poi lo ha portato a scegliere tutti quei brani che sono andati a comporre YS.
Seconde me, quello che più a lui è piaciuto – dato che era un band leader, costretto cioè dalle sue band a essere una specie di domatore di grandi aquile ovvero tutte quelle stelle con cui suonava – è che gli sembrava una vera e propria liberazione suonare con dei musicisti che erano concentrati sulla sua musica e non tanto sul fare le aquile. Questo credo che sia l’aspetto che gli è piaciuto più di tutti. Credo che per lui questo tipo di esperienza fosse abbastanza inusuale.
Zappa è un musicista che ha sempre scritto. Però lo ha fatto non da compositore colto. Delegando cioè molti aspetti alla documentazione su disco. Quali sono secondo lei le modalità più corrette per interpretare la sua musica oggi, in mancanza di legende rigorose?
Questa è una esperienza interessante, perché quando abbiamo ricevuto per la prima volta la sua musica scritta naturalmente avevamo le note, i ritmi, le tonalità… e basta! Era un po’ come nella musica barocca: non c’erano articolazioni, né dinamiche. Naturalmente, da musicisti di formazione classica quali noi siamo, abbiamo suonato esattamente quello che vedevamo. Ciò ci ha portato a un risultato molto sterile, perfino “classicistico”. Così abbiamo potuto constatare dal suo volto che era totalmente irritato, dato che per lui era assolutamente chiaro come questa musica avrebbe dovuto essere suonata. In altre parole per lui era un linguaggio molto evidente. È stato un processo molto interessante perché abbiamo percepito la sua irritazione, infastidendoci a nostra volta, perché non eravamo soddisfatti nemmeno noi dei risultati, dato che la musica non ci parlava. Così gli abbiamo chiesto di cantarci le frasi. E lo ha fatto con tutte le legature, lo staccato, le articolazioni e le dinamiche. Così abbiamo capito che la sua musica – senza generalizzare perché dipende molto da pezzo a pezzo – è piena di elementi retorici e molto costruita sulle modalità legate all’improvvisazione. C’è infatti uno stile retorico nelle sue improvvisazioni e lo si può scoprire in molte melodie che ha scritto. Per esempio predilige certi intervalli rispetto ad altri e si può scoprire anche in pezzi molto astratti che ci sono affioramenti di questo stile retorico. E penso che questa sia la chiave per capire la sua musica. È stato buffo perché ovviamente occorre suonare la nota e poi “stilizzarla”. Questo per lui significava aggiungere diverse cose. E ha voluto anche far intendere che sotto un certo aspetto lasciava l’iniziativa all’immaginazione dei singoli esecutori. In ultima istanza non era importante che su certe note ci fosse una legatura, uno staccato o un marcato. Era molto più importante che ogni singolo musicista avesse una visione personale di come quelle note potessero essere suonate. Come in altre musiche, ogni interprete ha acquisito un carattere specifico. E questo è proprio ciò che lui cercava…
La partitura oggi è differente dall’originale?
Sì, quella che abbiamo usato ora è dotata di tutti i segni di articolazione, legature e dinamiche. Questo è stato parte del mio lavoro come direttore, cioè quello di annotare tutte queste cose nella partitura finale. Ma non significa che si debba solamente “riprodurla”. Si tratta di una proposta: una delle soluzioni possibili.
Su YS ci sono aspetti che nelle interpretazioni recenti è sembrato che passassero in secondo piano come la spazializzazione del suono. I sei speaker di YS diventano a volte una semplice amplificazione frontale. Quanto è importante l’amplificazione in YS?
Per Zappa questo era una cosa essenziale. Lui aveva un’immaginazione davvero insuperabile su come la musica in generale dovesse essere spazializzata. Abbiamo avuto questa esperienza speciale con lui. Dopo YS ci ha proposto di registrare i pezzi per ensemble di Edgar Varèse nel suo studio, ma con la sua idea di spazializzazione. Prima di tutto il set up degli strumenti nei diversi gruppi e poi la tecnica di registrazione. Questo progetto è una specie di mistero, dato che la Zappa Family Trust possiede ancora le registrazioni.
Quindi avete registrato anche Varèse…
Sì, non io. L’Ensemble Modern con Peter Eötvös. Andarono tutti a Los Angeles per registrare tutti i lavori di Varèse per ensemble con Zappa come producer e sound director. Ma non è mai stato pubblicato. È là. Tutto era vicinissimo alla pubblicazione, ma non ho idea del perché non l’hanno mai fatto. Tornando alla domanda. Naturalmente conta anche lo spazio nel quale si esegue la performance, ma posso solo dire che questo aspetto era molto importante per lui, che ha insistito molto perché il suo staff venisse da Los Angeles per gestire il mixaggio dal vivo, seguendo in modo preciso le sue indicazioni.
Nella vostra ripresa con l’ensemble Bernasconi pezzi come Welcome to the United States e Food Gathering in Post-Industrial America, 1992 sono stati eliminati. Ci sono indicazioni in proposito da parte di Zappa?
Penso che sia molto importante capire che questi pezzi non sono composti, bensì improvvisati. Posso solamente dire che Food Gathering in Post-Industrial America fu elaborato il giorno prima del concerto di YS. In virtù di tutto il lavoro fatto insieme, ci una una specie di familiarità con le modalità di improvvisazione che lui dirigeva. Quel pezzo fu elaborato in un momento preciso e fu concepito proprio per quella situazione. Anche Welcome to the United States fu concepito in modo analogo, non l’ultimo giorno, ma poco prima. Entrambi i pezzi sono legati prima di tutto al posto dove il concerto veniva organizzato in merito alle citazioni del carnevale assiano, cioè la città di Francoforte. Queste sono cose che non avrebbero dovuto essere fatte in altri posti, perché sono sicuro che altrove, con altri gruppi, Zappa avrebbe sviluppato cose completamente diverse. Sono anche sicuro che lui voleva che questi pezzi fossero eseguiti dalle persone che aveva scelto in quella occasione. Ovvero: la nostra violista Hillary Sturt per Food Gathering… e il nostro pianista Hermann Kretzschmar che fece un meraviglioso lavoro su Welcome… . Zappa fu davvero entusiasta per il modo con cui eseguirono le rispettive performance. Quei pezzi erano proprio solamente per loro. Ma la cosa importante è che non possono essere considerate delle sue composizioni. C’è un aspetto della sua musica che include spontaneità e propensione alle questioni politiche.
Anche G-Spot Tornado a volte viene trattato come bis. Mentre verrebbe naturale considerarlo come ultimo brano della “suite”.
Sì, è uno dei pezzi di Zappa composti sul synclavier ed è un pezzo che ha al suo interno molti aspetti meccanici anche nella strumentazione orchestrale. Sì, è giusto: è l’ultimo pezzo della suite.
Lei è a conoscenza di altri brani che Zappa avrebbe voluto eseguire con l’Ensemble Modern, ma che non ha avuto il tempo di preparare?
Quando parlavamo insieme venivano fuori tantissime idee e sono sicuro che lui ne avesse anche tante altre. Ho già parlato di Varèse, ma poi ricordo anche che disse un paio di volte: «Let’s do an opera together!» e menzionava anche un titolo. Non ne sono molto sicuro, ma credo che avesse a che fare con l’inferno, qualcosa come “One day in Hell” o qualcosa del genere. Sì credo proprio che sarebbe stato interessante realizzare una cosa del genere…
È a conoscenza del progetto poi naufragato dell’opera Dio fa pensata per il Teatro alla Scala per i mondiali di calcio del 1990. Gliene ha mai parlato?
No, non ne sono a conoscenza. Mi sembra una cosa buffa. Con Zappa ho sempre avuto la sensazione che, in qualche modo, essendo figlio di immigrati italiani – e avendo anche io un background cattolico – avesse una sorta di attrazione nei confronti della blasfemia. Una reazione al cattolicesimo: una sua tipica conformazione.
Non voglio chiederle cosa avrebbe scritto Zappa oggi. Ma come avrebbe potuto essere la sua carriera musicale se il mondo accademico lo avesse accolto prima, per esempio negli anni ‘80.
Personalmente penso che non sarebbe cambiato nulla per lui. Il modo in cui lui lavorava, il modo con cui componeva rivela una vena così personale che non gli importava. O meglio, forse non è corretto dire che non gli importasse: ovviamente lui voleva essere accettato anche come compositore. Ma non credo che questo avrebbe cambiato la sua musica per nulla al mondo, dato che il suo carattere e la sua immaginazione erano troppo forti perché questo potesse avvenire.
ottobre 2018 © altremusiche.it / Michele Coralli
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