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Rivestire film muti di suoni non è pratica recente e, anche se non si può certo dire che per ogni pellicola sia stata composta una colonna sonora, si può comunque affermare che, nei casi in cui nessun commento sonoro è stato composto ad hoc, sono spesso state aggiunte, in maniera più o meno posticcia, musiche in qualche modo correlate con l’atmosfera (diciamo così) del film. Ad esempio film storici russi sono stati commentati da movimenti sinfonici di Šostakovic, mentre brevi pezzi al pianoforte sono stati a suo tempo commissionati a Eisler, Satie, Honegger e molti altri, senza che questi entrassero a far parte di alcuna colonna sonora specifica. Recentemente poi, tale operazione è stata sostenuta da diversi artisti quasi come un divertissement, ovvero come progetto collaterale capace di unire cinefili e appassionati di musica in spettacoli dal marchio DOC “multimediale”. Ne è nata quasi una moda e tutti si sono cimentati sulle immagini di Méliés, Lang, Dreyer, Vertov, Pudovkin, Dovzenko e molti altri. A questo punto però sorge un interrogativo: è sempre pertinente tutto quello che si decide di appiccicare in forma di suono allo schermo? Oppure occorre porsi un problema di contestualizzazione e, soprattutto, di storicizzazione?
L’Ensemble di Phillip Johnston, musicista non nuovo al confronto con il cinema muto e autore del progetto dedicato a Friedrich Wilhelm Murnau, non sembra assolutamente porsi il problema della pertinenza storica, e nemmeno quello del rapporto tra i suoni e le immagini, infarcendo un dramma come quello magistralmente espresso nel Faust di Murnau (1926), ispirato a Goethe e Marlowe, di musiche che nulla hanno a che fare con quel film.
Il progetto soffre subito di un problema strutturale: in un teatro come il Manzoni di Milano, ovvero una sede che avanza in dimensioni quello che dovrebbe essere, o meglio, avrebbe dovuto essere il cinema di una volta, lo schermo è molto più piccolo rispetto al palco e fa perdere, a chi è lontano, quel senso di straniamento tipico del cinema.
Il vero problema però è proprio la musica. Le premesse potrebbero anche esserci: accompagnano Johnston (multistrumentista di Chicago che ha avuto rapporti artistici con Zorn, Chadbourne, Sharp), la mezzosoprano Kate Sullivan, il violoncellista Tomas Ulrich e l’acclamato fisarmonicista Guy Klucevsek. Strumentisti di ottima levatura, anche se devoti a una pulizia e a una diligenza tipica di chi esegue bene i compitini che gli sono assegnati, ma capace di rendere sempre più antipatici musicisti che sanno essere molto più appassionanti.
Il problema è la musica, si diceva. Sì perché, a costo di apparire dei noiosi conservatori, ci preme sottolineare che il contesto storico in cui un film nasce, le sue atmosfere, il suo sviluppo narrativo e una miriade di altre condizioni non possono non essere tenute in considerazione se si vuole dare un commento a una pellicola muta. Altrimenti si fa un’operazione di mera proiezione del proprio ego su un’opera già nata e fruita. Malignamente viene da pensare che tutto questo sia frutto di una nemesi storica in cui i musicisti hanno la meglio sui registi-dittatori che usano e abusano delle musiche composte per i loro film, tagliandole, sfumandole, scartandole a loro piacimento.
La vicenda del Faust è assolutamente nota e non sarà nostro compito darne un sunto. Per brevità diciamo che si tratta di una storia drammatica in cui la lotta tra il bene e il male entra prepotentemente nella personalità del protagonista (Faust), provocando in lui un conflitto interiore, che, invece, non sembra togliere il sonno a gente come George W. Bush. La musica di Johnston non sostiene il peso del dramma, ma al contrario ne fa una lettura assolutamente leggera e spensierata, proprio da domenica mattina, riprendendo un po’ di be bop, di musica klezmer, di gospel, orizzonti musicali distanti mille miglia da quello che Murnau rappresenta nel suo Faust, un film gotico dai contorni espressionisti, visionario e sperimentale. Ma nessuna di queste caratteristiche viene presa in considerazione da Johnston.
Prendiamo come esempio la sequenza in cui Faust incontra Mefistofele, che viene commentata da un blues dai toni quasi gioiosi. Il percorso mentale potrebbe essere questo: Faust e Mefistofele, che rappresenta il diavolo, si incontrano a un incrocio in campagna; il blues è la musica del diavolo; Robert Johnson (notissimo vecchio bluesman) ha scritto Crossroads, blues che certa storiografia musicale mette in relazione con una rappresentazione del conflitto tra bene e male; quindi un blues alla Robert Johnson può star bene sul film di Murnau.
Allo stesso modo una bella sequela di musica di stampo gospel e spiritual si può ben adattare alla bisogna. Così facendo possiamo andare avanti in eterno, trovando relazioni che stanno solo nella nostra testa, ma che ogni musicista può suggerire, prendendosi pure i complimenti per il suo repentino e geniale salto logico e stilistico.
Visto allora che il clima culturale sembra accordare ogni tipo di libertà inventiva, possiamo dare un contributo per possibili approcci futuri: rappare l’Orlando Furioso, tridimensionalizzare la Cappella Sistina, installare un commento musicale nelle aree archeologiche di Stonhenge, Selinunte e Pompei. Stiamo esagerando?
gennaio 2003 © altremusiche.it / Michele Coralli
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