Pikapika TeArt: “Moonberry”

Michele Coralli
Pikapika TeArt: “Moonberry” (CD AltrOck Productions, Alt 015, 2010)

Certi luoghi assurgono agli onori della cronaca dei giorni nostri soprattutto per le curiosità legate alle temperature estreme che ci danno sollievo durante certi risvegli invernali dalle nostre parti. Krasnojarsk è città meridionale della Siberia, stazione di passaggio della ferrovia Transiberiana e località da cui provengono i Pikapika Teart. Ensemble di sette elementi, all’occorrenza nove, che si raccoglie attorno al bassista Maxim Bulatov, autore della quasi totalià delle musiche, i Pikapika si inseriscono a buon diritto, con questo loro primo lavoro ufficiale, nella corrente progressiva globalizzata, quella che trova ormai adepti in ogni angolo del pianeta. Tra le influenze citate nelle note di copertina i soliti Henry Cow (ma possiamo aggiungere anche tutto il resto della compagnia RIO), King Crimson, Volapuk e le inevitabili sponde classiche dei grandi russi come Stravinskij, Šostakovic e Schittke, una delle triadi fondamentali del secolo che ha preceduto l’attuale.

Ora, viste le premesse, non sarà molto difficile immaginarsi quale tipo di scrittura venga messa in campo dai siberiani: metriche dispari, intrico contrappuntistico e grande densità armonica sono ormai tratti che accomunano gran parte dei gruppi della recente nuova onda progressiva. Quel profondo senso di appartenenza cameristico derivato certamente dai capostipiti del settore come gli Henry Cow accomuna i Pikapika Teart a gruppi come Rational Diet o Yugen, peraltro compagni di scuderia. Balzano agli occhi certamente le scelte timbriche che optano spesso per strumenti dal suono pastoso messi in contrasto con archi (violino e viola) e chitarre (il rimando va al celebre fagotto di Lidsay Cooper, qui sostituito da un clarinetto basso). Altro elemento molto riconoscibile il tratto localistico di natura rapsodica. Sembra quasi un obbligo ormai inserire, a mo’ di “certificazione geografica tipica”, elementi della tradizione folklorica: in questo caso i frammenti di polivocalità russa. Ma banalizzeremmo il discorso se ci soffermassimo troppo sull’elemento esotico confezionato ad uso turistico. Il vero limite di lavori come questo, che offre comunque ottimi spunti, è la totalizzante nevrosi per la forma, concepita come un vero e proprio timor vacui finalizzato a mettere in mostra le pur sostanziali doti tecniche (non sempre coincidenti con quelle musicali). Bulatov e compagni, pur non spingendosi agli eccessi di molti loro colleghi, a tratti corrono il rischio di farsi intrappolare dai mortali ghiacci della struttura. Rispetto ad altri, sembra che quelli non si sciolgano proprio mai.

2010 © altremusiche.it

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