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Modernità o post-modernità? Ai posteri l’ardua sentenza e il lascito di ordinare le pieghe di una creatività artistica che, oggi come non mai, continua a srotolarsi e arrotolarsi su se stessa, rimescolandosi di continuo. Lasciate da parte però ogni querelle del tipo vetus et novus, proviamo a metabolizzare una più accogliente prospettiva per riportare le impressioni nate in noi dopo la ripresa di Quartett di Luca Francesconi (versione 2019 che fa seguito alla prima assoluta scaligera del 2011). Un’opera contemporanea quindi che ha goduto di una certa fortuna in giro per il mondo: 76 rappresentazioni in 17 teatri per 7 diversi allestimenti, con calendario già fissato per la stagione 2020-21 alla Staatsoper di Berlino.
Quali quindi i motivi di questo successo? Crediamo un ventaglio di allegorie che ben incarnano lo spirito del presente, a partire dalla decadenza del mondo benestante, circondato, o meglio assediato, da masse di sopravviventi che premono ai confini. Da una parte il desiderio voluttuoso, crudele e perverso degli uni, dall’altro il desiderio di vita (qui solamente supposto) degli altri.
Rivoluzione francese alle porte (Les Liaisons dangereuses), Berlino che brucia (La caduta degli dei), cambiamenti climatici nell’indifferenza della crescita del PIL. I rimandi possibili non mancano: chi può desiderare solo il piacere lo fa senza riguardo nei confronti di chi soffre. E alla borghesia che riempie i teatri lirici è sempre piaciuto mettersi di fronte a uno specchio che parla delle proprie perversioni, risvegliando non tanto l’afflato civile, quanto l’impulso voluttuoso e voyueristico che porta in sé.
E di sesso e perversione in Quartett non ne mancano, visto che tra la Marquise de Merteuil e il Vicomte de Valmont non si parla e si pratica d’altro. E non solo loro, visto che, nella piéce teatrale da cui è tratta l’opera, il gioco di Heiner Müller è anche quello di sdoppiare i personaggi attraverso una profetica previsione di annullamento delle differenze e della distanza tra i sessi.
Non manca anche qui una regia che valorizza immensamente la messa in scena per merito della visione claustrofobica e anche qui molto archetipica di Alex Ollé (Fura dels Baus): una scatola sospesa, solida per quanto appesa a una ragnatela di cavi, contiene i due protagonisti che sembrano due personaggi in tv o dentro un monitor, o, metaforicamente, due pesci dentro un acquario che circoscrive la trama della loro vita avventurosa, quanto miserabile.
La musica: tanta. Nel consueto linguaggio massimalista di Francesconi che accumula, stratifica, continua a mettere in movimento ipercinetico – sospendendo anche il decorso del tempo (paradossalmente in barba anche al titolo che Milano Musica ha scelto per l’edizione del festival 2019 ovvero: Velocità del tempo). Nell’opera di Francesconi anche questo parametro si comprime di fronte alla completa mancanza di attimi di respiro nell’ossessivo duello tra la marchesa e il visconte. Un diluvio di moti psichici che portano i due alla perdita del senso della realtà e della vita. L’atto di distruzione interiore, che ai nostri orecchi è sembrato plausibile, passa, musicalmente attraverso un doppio livello di significanza: l’Ancien Régime del bel canto (un’incrostazione estetica da cui volente o nolente anche il contemporaneo spesso fa fatica a liberarsi) e l’usato sicuro dell’avanguardia modernista ancora all’attacco del cielo. Semplifichiamo, ma a noi piace pensarlo: quando certi stilemi operistici molto tradizionali (per esempio un uso del vibrato nelle voci, o qualcosa che assomiglia molto a un’aria) fanno capolino in concessione a qualche amante del genere, per contro quelli come noi si ritraggono.
Francesconi però è troppo abile da non riuscire a creare orchestrazioni a dismisura complesse per creare una sorta di contrappeso. E l’elettronica non è lì per caso, anche se il suo rilievo estetico è certamente secondario rispetto a quello che potrebbe essere lecito aspettarsi in un’epoca come la nostra, in cui esercitazioni in questo settore vengono apprezzate anche dal pubblico giovanile.
Come ogni marchesa o visconte, il chiudersi in luoghi e linguaggi d’elezione, tagliati fuori dal mondo reale, ma rimirandolo con perversione, potrebbe diventare un gioco dentro il gioco di prospettive, che parte dalla scatola sospesa di Quartett, e, per passaggi successivi, inquadra prima la Scala e il pubblico che guarda l’opera, poi la città di Milano, infine l’Europa che cerca di “difendersi” dall’invasione degli ultimi. Quando si mette in un parallelepipedo un archetipo, non si può non escludere di venir inseriti a nostra volta in un parallelepipedo più grande e diventare noi stessi spettacolo per altri, in un gioco di contenitori e contenuti che non ha mai fine.
ottobre 2019 © altremusiche.it
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