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Guardando alla luna e strizzando l’occhio ai Pink Floyd con lo speculare The Light Side of the Moon (Le Chant du Monde, 2006), Rita Marcotulli filma un viaggio musicale che chiama a sé le osservazioni celesti, la campagna umbra, i sassi di Pinuccio Sciola, i sonni della figlia Elettra e il canto del suo pianoforte. Masse e movimenti, quiete e luci. È forse proprio nel confronto con le immagini tradotte sulla propria tastiera che Rita Marcotulli trova le sue migliori ispirazioni, come dimostra questo lavoro per pianoforte solo. In realtà sono molti i suoni che lo circondano in questa specie di pellicola senza fotografie.
Per chi vuol avere qualche dritta biografica sull’artista cerchi pure sotto: Chet Baker, Palle Danielsson, Pino Daniele, Steve Grossman, Joe Herderson, Pat Metheny, Enrico Rava, Kenny Wheeler e moltissimi altri.
Cosa ti lega alla musica dei Pink Floyd e come mai questo titolo?
«Quando ero bambina, prima di iniziare ad ascoltare il jazz, mi dilettavo con la musica pop e i Pink Floyd sono stati un gruppo che ho ascoltato molto, in particolare The Dark Side of the Moon. Sono stati i primi, o quasi, a utilizzare suoni elettronici, soprattutto in quel disco, basti pensare a pezzi come Money con tutti quei suoni campionati. Ho chiamato il mio disco The Light Side of the Moon anche perché ho reso un piccolo omaggio ai Pink Floyd con la cover di Us and Them. In realtà il titolo è nato per caso durante il missaggio. È stato un suggerimento di una mia amica che, dopo aver sentito quel brano, ha notato come quel suono fosse molto più leggero rispetto all’originale. The Light Side appunto, perfetto per un titolo».
Quando ho sentito quel pezzo non ho riconosciuto immediatamente i Pink Floyd, ma ho pensato a qualcosa di Sakamoto. Ma credo che non c’entri nulla…
«Probabile, perché pur conoscendolo, non è un musicista che ascolto tantissimo. Ammiro molto quello che scrive, ma niente di più».
Il tuo pianoforte nel disco viene spesso trattato e ci sono anche molti suoni di contorno.
«Sì, oltre al pianoforte, ci sono una serie di suoni ricavati dalle sculture di Pinuccio Sciola. Si tratta di sassi che suonano emettendo armonici. Volendo dedicare il disco alla luna mi sono venute in mente le masse di queste pietre, che, combinate con i riverberi, creano degli spazi molto suggestivi. L’idea suggerita da certi trattamenti anche del pianoforte o dei rarissimi interventi vocali, come in Us and Them in cui viene ripetuta la parola Us in un delay che rimbalza, è di immaginare di essere sulla luna».
E come hai registrato le pietre?
«Le abbiamo suonate e campionate. Ce ne sono di diverse grandezze. Alcune, le più piccole, le ho in studio. Sciola però fa soprattutto sculture gigantesche che pesano tonnellate. Sono meravigliose anche da vedere: una ad esempio è all’Auditorium di Roma e altre sono all’aeroporto di Fiumicino. Ovviamente abbiamo utilizzato quelle più piccole, percuotendole o accarezzandole. A volte i suoni sono stati intonati o abbassati di tono. Prossimamente abbiamo in programma un concerto dedicato proprio alle pietre di Sciola, intitolato Elementi. Facciamo la prima a all’anfiteatro di Terni il 7 giugno con un gruppo composto da due percussionisti tra cui Marilyn Mazur, che ha suonato con Garbarek e Miles Davis, e una musicista danese, poi Paolo Fresu, Andy Sheppard e una pianista classica. Una performance dedicata esclusivamente a queste pietre. Si vedrà lì come riusciremo a farle suonare dal vivo senza campionamenti. Sarà una cosa di grande effetto visto che le pietre hanno degli armonici davvero meravigliosi. A seconda delle grandezze poi si producono suoni e frequenze pazzesche. Sciola ha un posto magico in Sardegna dove tiene le sue sculture, un prato che sembra un po’ Stonehenge. Ora sta lavorando a delle pietre che abbiano, non solo armonici, ma una vera e propria nota temperata. Tramite un teorema di Leonardo da Vinci sta calcolando le grandezze dei blocchi che poi corrisponderanno alle note di una scala».
Uno scultore con una sensibilità musicale…
«Sì, certo. Anzi, è stato lui a dirci come dovevano essere suonate: alcune andavano solamente accarezzate, mentre noi pensavano che dovessero essere tutte percosse».
C’è anche un pianoforte preparato nel disco.
«Si sulla melodia di Koinè uso una collana di plastica che rimbalza sulle corde. Mi incuriosisce molto questo genere di suoni. E per questo che sperimento spesso, anche utilizzando le mani direttamente sulle corde del pianoforte. Mi serve soprattutto per simulare diversi altri strumenti. La cosa che mi manca nel piano acustico è la nota lunga, che invece ha la tromba o il sassofono. Questi strumenti riescono a dire con una nota cose che hanno una notevole energia, mentre noi pianisti dobbiamo mettere insieme tante note per raggiungere lo stesso effetto. Si cercano allora altre soluzioni».
La sensazione è che nei tuoi dischi i suoni siano sempre molto curati.
«La produzione è di mio marito Pasquale Minieri, un vero e proprio maniaco del suono. E ora mi ha contagiata. Poi abbiamo la fortuna di avere in casa uno studio di registrazione, quindi abbiamo potuto dedicare al disco molto tempo».
Avete aggiunto anche qualche piccolo overdub?
«Non più di tanto. Su qualche pezzo si sovrappongono due pianoforti. Per il resto ci sono solo dei piccoli effetti di contorno. Ma al massimo abbiamo fatto due sovrapposizioni».
Che rapporto hai con la tecnologia?
«La tecnologia mi incuriosisce, ma ne sono assolutamente a digiuno. Siccome poi ho la fortuna di poter contare su Pasquale, delego queste cose per lo più a lui. Qui abbiamo tutti i sistemi, ovviamente, a cominciare da Pro Tools e dai software più sofisticati».
Parlami allora di questo studio Elettra.
«Di fatto abbiamo costruito una casa concepita con un’altezza massima al tetto di sette metri e quaranta. L’interno è stato curato da un ingegnere esperto di acustica che ha utilizzato la pietra sponga che si forma sotto la cascata delle Marmore, una pietra che utilizzavano già i romani per costruire i loro anfiteatri. Dentro è tutto ricoperto con questo materiale e il suono è davvero molto particolare. Allo studio Elettra abbiamo registrato, oltre ai miei dischi, anche altre produzioni di Pasquale come il disco di Elisa, degli Avion Travel e dell’Orchestra di Piazza Vittorio».
Quali sono i tuoi pianoforti preferiti e quali utilizzi abitualmente?
«Probabilmente lo Steinway & Sons è quello che preferisco. Però in concerto opto per un Yamaha C7 grancoda o l’S6, che sono dei bellissimi pianoforti con standard medio-alti. Sono sempre sicura di trovarlo ottime condizioni, mentre può capitare di trovare un meraviglioso Steinway che non funziona tanto bene. In questi casi preferisco lo Yamaha, chiaramente né il C5 né il C3, perché non mi piace il loro suono. Poi ovviamente ci sono anche i Fazioli che sono pianoforti bellissimi, anche se sono più difficili da trovare nei concerti. A casa ho un Yamaha C7, che è una prima scelta. È venuto qui un loro tecnico e ci abbiamo lavorato sopra due giorni per metterlo a punto. Volevo un suono tondo e molto caldo, e devo dire che è un pianoforte che suona molto bene. Lo si sente anche nel disco».
E come tastiere?
«Ultimamente non ne sto utilizzando molte. Ho da poco comprato una stecca piano MIDI che ha prodotto MiniMoog. È una cosa molto particolare: si appoggia sulla tastiera ed è collegata con dei sensori di luce che mandano gli imput sulle note, trasformando lo strumento in un pianoforte MIDI. È molto comoda da portare in giro e adesso naturalmente vorrei anche cercare di farmi i miei suoni, come nel caso delle pietre. E anche provare a fare della musica concreta, cioè fatta di suoni concreti, non solamente quelli campionati, ma anche quelli riprodotti. Mi piacciono i suoni che simulano altri strumenti, però solo i suoni veri, non quelli finti».
Il gusto di molti musicisti rimane sempre molto fedele ai suoni reali.
«Assolutamente. Io inorridisco quando mi parlano di nuove tastiere che suonano meglio di un pianoforte acustico. Sono sempre molto scettica: il suono può essere anche simile, ma io riconosco subito un pianoforte reale rispetto a uno digitale. In ogni caso quando si suonano questi strumenti non sono assolutamente la stessa cosa. Non c’è il corpo né l’anima del pianoforte. Non si tratta più di uno strumento a percussione su cui senti il tocco. Personalmente con una piano digitale non riesco a dare quello che voglio. Adesso che sto sperimentando l’interno del pianoforte diventa impossibile poi usare strumenti non acustici.
Ho notato che hai un rapporto particolare con il cinema, se non altro per il fatto che hai reso omaggio a un grande regista come Truffaut. Hai lavorato alla produzione di colonne sonore o ti piacerebbe farlo?
Quello per il cinema è un amore che nasce da bambina. Mio padre era un tecnico del suono che ha lavorato con i più grandi compositori di musica da film del passato, da Morricone a Nino Rota. Allora mi capitava di andare in studio mentre registravano l’orchestra in diretta, sul ciak che lanciava le immagini del film. Da allora il cinema è diventata una delle cose che mi appassiona di più, anche se non ho lavorato molto in questo campo. Ho fatto una sola colonna sonora per una giovane regista francese su un film che poi non è nemmeno uscito. Però mi piacerebbe ancora fare qualcosa, anche perché mi dicono che la mia musica è molto visiva».
Hai vissuto diversi anni a Stoccolma. Che differenze trovi tra quel mondo musicale e il nostro?
«Si tratta proprio di culture diverse e credo che dipenda anche dalla religione. Anche se di fatto non sono praticanti, la religione protestante influisce molto sul loro modo di vivere la cultura, sul modo di pensare e di rapportarsi con la società. La Svezia è un paese molto avanzato socialmente e possiede una serie di cose che purtroppo mancano in Italia, che è un paese sempre più individualista. Poi musicalmente sono preparatissimi, potendo contare su scuole meravigliose. Sono stata in Norvegia a trovare un amico che ha una figlia di 12 anni. Lei studia pianoforte e batteria, e con la scuola è andata in Africa a studiare le percussioni africane. Per noi una cosa del genere sarebbe impossibile. Mentre trovo fantastico conoscere la musica nella sua globalità. Spesso invece, anche nel jazz, ci sono molti limiti culturali. Sarebbe giusto invece studiare facendo ricerca sul campo. Il ritmo è giusto impararlo in Africa, così come in Scozia. Gli svedesi viaggiano apposta per imparare le diverse esperienze musicali e assimilare».
Non a caso i jazzisti scandinavi sono diventati dei musicisti di culto.
«Sì, credo che loro cerchino sempre di essere originali. Ovviamente non è facile, ma si pongono questo obiettivo. E nel jazz è molto importante, perché ormai è quasi diventata una musica di repertorio come la classica. Se ci si ostina a suonare la musica degli anni ’60, allora è come se il jazz non vivesse nel 2006. Gli scandinavi credo che riescano ad andare avanti, a guardare al futuro, come una volta faceva Miles Davis».
Credi che esitano ancora delle caratteristiche nazionali nel jazz globalizzato?
«Credo di sì, anche se oggi c’è un po’ di tutto. È giusto riconoscere un linguaggio principale, che è quello inventato da Charlie Parker e John Coltrane. Però penso che si debba anche guardare oltre. C’è stata un’evoluzione nella storia del jazz come nella musica classica. Si è passati dal Barocco al Romanticismo, all’Impressionismo e così via, perché si sono trovati dei nuovi linguaggi. Se anche io mi ostinassi a suonare il jazz classico avrei la sensazione che le cose non andassero avanti. Quello che conta per me è la contaminazione. Il passaggio dalla tonalità alla dodecafonia e alla serialità è stato frutto di ricerche. Credo quindi che sia fondamentale per un artista trovare delle strade nuove per poter continuare ad andare avanti».
Il jazz italiano ha ultimamente trovato una sponda nel pop e nella canzone d’autore. Un appoggio spesso meno sperimentale rispetto a quello che dici…
«Oggi anche da noi ci sono tantissimi musicisti riconosciuti per i loro meriti in tutto il mondo. Molti di questi riescono a dire ancora qualcosa di nuovo. Però in Italia c’è la malattia dell’audience, se non piaci sei finito. E quindi anche un musicista bravo, pur di fare successo, si dedica a cose banali perché in questo modo può arrivare direttamente al pubblico. Per carità, va benissimo: però l’arte e la ricerca sono un’altra cosa».
da “InSound” n7, giugno 2006 © altremusiche.it / Michele Coralli
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