- Robert Wyatt: “Cuckooland” - Dicembre 21, 2003
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A sei anni da “Shleep”, Robert Wyatt prosegue placido il suo discorso musicale. Registrato a Londra nel nuovo Gallery Studio dell’amico chitarrista Phil Manzanera, “Cuckooland” conta ben 16 tracce, oltre 75 min. di musica. Doveva essere un doppio, ma i costi di produzione hanno imposto tagli: la suddivisione in due parti viene comunque mantenuta e segnalata da 30 secondi di silenzio (“Uno spazio adatto a quelli con le orecchie stanche per fare una pausa e riprendere l’ascolto più tardi”).
L’atmosfera è distesa, priva di urgenze. Le architetture sonore rimangono riconoscibili: poche note alle tastiere e atipiche melodie scandite dall’inconfondibile voce, il suo strumento primario. Qui Wyatt suona anche la tromba, un omaggio a Miles Davis, in modo non dilettantesco. Ma gli arrangiamenti sono ricchi: si attornia di musicisti jazz di primo livello quali l’esule israeliano Gilad Atzmon (sassofonista che si definisce un artista politico; è da poco uscito il suo “Exile”), Yaron Stavi (bassista, anche lui israeliano e presente in “Exile”), Annie Whitehead (trombone) e la voce di Karen Mantler (giovane figlia di Carla Bley e Michael Mantler, vecchie conoscenze di Wyatt), che firma anche tre brani. Ma anche Brian Eno e Paul Weller ci mettono lo zampino e troviamo in un brano persino la chitarra dall’inconfondibile suono Pink Floyd di David Gilmour (un po’ fuori luogo, a dir la verità).
Rispetto a “Shleep” (ovvio termine di paragone) si nota una maggiore presenza di contenuti “politici”: dall’omaggio alla cultura rom di In the forest all’incubo dell’invasione in Iraq (Lullaby for Hamza), dalla proliferazione di armi nucleari in Medio Oriente (Foreign Accents) fino al titolo stesso dell’opera: La terra dei cuculi, se si tiene conto che il cuculo nella cultura anglosassone viene usato come riferimento alla pazzia, si può leggere nel suo complesso come un atto d’accusa ai potenti della terra che alla luce del sole, sotto i nostri occhi sbigottiti, compiono scelte “insane”. Da citare ancora, almeno, Old Europe, omaggio alla grande stagione del jazz anni ’50 e la cover di un brano del 1961 della coppia Jobim-de Moraes, Insensatez. Un album che non sorprende, non si pone obiettivi avanguardistici, non travalica nuovi confini di sperimentazione. Conferma, piuttosto, e molto piacevolmente, gli altissimi livelli espressivi raggiunti dal santone del jazz inglese.
2003 © altremusiche.it
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