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Se anche il tardo Novecento ha avuto il suo romanticismo pianistico, questo lo si deve quasi esclusivamente a una buona parte di musica americana. Si sa, e non diciamo nulla di nuovo, che tutto ciò che viene etichetttato con “post-moderno”, “neo-romantico” o “neo-consonante” rimanda inevitabilmente a una visione retrogradata di quello che comunemente viene considerata la Storia della musica, intesa come uno sviluppo positivista verso il nuovo o il meglio, a seconda delle prospettive. Guardare le cose sempre nella stessa ottica dialettica modernismo vs post-modernismo (lungi da accollarsi solite considerazioni di tipo ideologico) non è forse l’approccio migliore per capire come sono andate le cose.
Compositori come Frederic Rzewski, ad esempio, si sentono (e li sentiamo) estranei a querelle di questo genere. La loro opera nasce e si sviluppa senza entrare in una competizione con la musica dei padri, quanto piuttosto procede nella ricerca di un rapporto più stretto con la quotidianità, anche musicale. Pensiamo al jazz, totalmente ignorato a partire da Darmstadt e invece tenuto in constante considerazione (a volte in modo anche superficiale) da parte di molti post-modernisti. Pensiamo alle musiche etniche, saccheggiate, elaborate, trasposte a piacimento da molti compositori del Novecento in un modo non dissimile a quanto avevano fatto a loro tempo molti romantici.
Ecco allora che l’equazione romanticismo:neo-romanticismo può darci qualche sostegno in più nel tentativo di comprendere brani come Four Pieces (1977) di Rzewski, composizioni che si dipanano a partire da un’unica cellula tematica rappresentata da un motivo popolare di origine andina molto riconoscibile. Nei quattro pezzi in cui si articola l’opera, ognuno dei quali eseguibile indipendentemente dagli altri, scopriamo un compositore che riporta alla luce un ricco bagaglio di articolazioni pianistiche quasi dimenticate. Articolazioni che si muovono per dare il segno di una ritrovata cantabilità e di un rimpianto virtuosismo. Più che pensare ad uno sperimentalismo trasversale, Four Pieces evocano un approccio puro e semplice al suono tradizionale del pianoforte senza mediazioni sovrastrutturali. Ciò che uno come Niccolò Castiglioni traduce da posizioni di un’avanguardia non estrema (curiosa la coincidenza che lo vede comporre nel 1978 i suoi Tre pezzi) non viene considerato da Rzewski che non ama gli spigoli a favore delle rotondità, i cluster a favore delle dissonanze risolvibili, le esplorazioni timbriche a favore dei suoni di sempre.
Per non parlare di John Adams e della sua nota Phrigian Gates (1977), un brano costruito tra timor vacuum e paranoia da circuito integrato, che all’interprete non fa staccare le mani dalla tastiera per oltre ventiquattro minuti. Se però il pianoforte di Rzewski suona romantico nel solco del più tradizionale linguaggio occidentale, quello di Adams, pur nella condivisione delle scelte timbriche del connazionale, riesce ad aggiungere alla sponda romantica quell’estremismo allucinato di una buona fetta di radicalismo minimalista di derivazione mistica. I due orizzonti non sono coincidenti, anzi forse molto più distanti di quello che abbiamo fin qui pensato.
2006 © altremusiche.it
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