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Da enfant prodige della musica contemporanea a “vecchio maestro”: la parabola artistica di Salvatore Sciarrino è definitivamente compiuta. Prima autodidatta, poi eretico, finalmente autore acclamato per l’originalità di quel segno distintivo che ha sempre caratterizzato la sua musica. Esiste un Centauro marino e due giardini. Il primo appartiene al corpus dei sei Quintetti (1984-1989), i secondi, Il giardino di Sara (2007) e L’altro giardino (2009), sono frutto dell’ultimo Sciarrino. Tra i due brani esiste una relazione che chiediamo direttamente all’autore.
«Una delle tendenze più forti che esiste nella mia musica è una sorta di intermittenza tra dimensioni diverse nelle composizione del Giardino di Sara che risale da 2 anni fa c’era un’esigenza che non poteva essere soddisfatta di entrare e uscire nella dimensione della musica. L’uscire non mi era concesso dall’esiguità dell’organico. Il giardino di Sara è nato come una lunga composizione per una voce e 5 strumenti (flauto, clarinetto, pianoforte, violino e violoncello). Nel comporre quest’opera c’era non solo un desiderio frustrato ma anche l’impossibilità di mettere in discussione la musica se stessa. La possibilità di esplicitare meglio questa musica mi è sempre rimasta. In realtà L’altro giardino ingloba quasi senza toccare nulla Il giardino di Sara, pur operando delle trasformazioni interne che sono delle vere e proprie correzioni tecniche necessarie. Ad esempio la parte di clarinetto in alcuni tutti è completamente cambiata. L’opera precedente è incastonata tra una lunga introduzione e un finale diverso. Il nuovo organico arriva a 8 esecutori quasi raddoppiandosi e ovviamente la scrittura cambia, anche se sostanzialmente, soprattutto nella parte vocale rimane intatta. È un po’ una tecnica di incastonatura, più ricca ed elaborata, più pensata architettonicamente. Il pezzo ha una certa dimensione, potrebbe durare 35 minuti».
Entrambi i brani sono omaggio alla Sicilia a proposito della quale lei scrive:. “La seduzione irresistibile della bellezza forse fa crescere nei siciliani il vanto più che l’amore per la propria terra”. E poi: “(…) c’è ancora tanto da distruggere”. Lei si sente ancora siciliano?
«E’ detto con molto dolore, perché qualsiasi patrimonio è sempre limitato. Noi italiani abbiamo la brutta abitudine di pensare che abbiamo troppe cose d’arte da non sapere più che farne. Purtroppo invece finiscono. Quanto all’essere siciliano io lo sono profondamente. Sia nel modo di pensare, nel basare tutto sulla centralità dell’identità culturale. La Sicilia è stata un territorio importantissimo e siccome l’Italia è un paese arretrato la Sicilia rimane ancora una delle terre più importanti. Non è che da quando è decaduta non ha più importanza, dato che appunto l’Italia è un paese che non è mai cresciuto».
Un sillogismo un po’ triste…
«Infatti L’altro giardino non è un pezzo allegro, ma drammatico».
Il testo in siciliano antico è molto bello.
«Sì, è un testo erotico pieno di giochi e simboli sessuali antichi come l’uccello in gabbia».
Viene in mente il Dolce Stil Novo…
«In fondo l’italiano non è nato in Toscana, ma nella scuola poetica siciliana».
Il testo può presentare quindi delle difficoltà per l’interprete?
«I fonemi del siciliano non sono gli stessi dell’italiano. Naturalmente la trascrizione fonetica diventa un problema. Ho preferito lasciare la trascrizione che ho incontrato andando per libri, perché modificare la trascrizione comportava altri problemi. In effetti ci sono delle parole che sapendo come vengono pronunciate risulterebbero più comprensibili. Non è che poi nelle poesia ci sia un logica lineare, bensì quasi a salti. Passa un uccello e si sistema il nido / poi se lo adorna con tre penne d’oro / passa l’amante e se ne piglia uno. Uno cosa? Un uccello o una penna? Probabilmente è una penna ma esiste un’incongruenza logica che a me è piaciuta.
Molto spesso in autori non popolari ci sono errori di stampa che a me hanno sempre molto colpito. Addirittura una volta ho fatto una doppia versione di una cosa di Giovan Battista Marino, poeta tra i preferiti anche di Monteverdi. Nella versione di Benedetto Croce c’era una variante che a me piaceva: occhi stellanti al posto di occhi stillanti. Era un errore certamente che produceva un corto circuito tra stilla e stella davvero straordinario».
Non sempre però l’errore risulta così felice.
«Però anche certi passaggi che noi amiamo nei brani celebri di Chopin sono errori di stampa che lui ha accettato, errori di stampa provvidenziali. Ad esempio verso l’inizio della prima ballata quando si presenta un accordo singolare, dissonante ma di una dolcezza inaudita. E questo è frutto di un errore di stampa. Il manoscritto non era così, il copista ha sbagliato una delle note ed è venuta fuori un accordo pazzesco e Chopin se l’è tenuto».
Centauro Marino appartiene al ciclo dei Quintetti da lei scritti negli anni ’80. Come considera la sua musica con più di 30 anni sulle spalle?
«La vecchiaia è percettivamente uno stato singolare. Quando si è giovani la si immagina con l’energia di quell’età. Quando poi la vecchiaia arriva il mondo lo si trova completamente diverso da come lo si era immaginato. La percezione soggettiva è completamente nuova. E può fare paura, generare ansia, ti può bloccare. Nel mio caso c’è uno specie di sdoppiamento. Da una parte è chiaro che queste cose le ho scritte io e ne ho una memoria nitidissima – se dovessi però recitare a memoria il catalogo delle mie opere me ne dimenticherei tante pur conoscendole perfettamente. Ciò che reputo interessante è che c’è stato un cambiamento di linguaggio molto graduale che ha prodotto delle cose lontane, come se fossi andato oltre le montagne. Ripercorrendo passo a passo ci si accorge che c’è stata una trasformazione lentissima e molto coerente. La percezione è anche di sorpresa perché certi pezzi erano veramente in anticipo e hanno trovato la loro giusta messa a fuoco adesso. Centauro marino è uno di questi pezzi. Non è che avessi una particolare affezione a questo pezzo ma l’ho riscoperto attraverso i giovani interpreti di oggi. E’ un pezzo di singolare energia e fantasia nella concezione. E’ una specie di mini-concerto per pianoforte e pochi altri strumenti che trasformano la loro voce. Non sono mai stato un compositore ortodosso, quindi non ho mai seguito le linee che hanno seguito tutti gli altri compositori. Vado per percorsi miei e cerco di trovare delle cose che sono degne di essere ascoltate altrimenti non serve fare il compositore. La musica deve dare una grande emozione e una grande scoperta. La cosa strana è che il soggetto della scoperta divento io quando sento queste cose che ho collocato nella mia memoria in una certa veste in una certa fisionomia e ora le ritrovo del tutto rinnovate e quindi le scopro. Scopro io stesso quello che ho fatto. Centauro marino io l’ho voluto proprio nell’esecuzione di Algoritmo in un disco che uscirà tra un anno della Kairos perché è proprio attraverso questo pezzo che noi siamo diventati amici. Dopo averlo sentito eseguire malamente da altri gruppi italiani, l’ho sentito fare da loro a Parma e l’esecuzione è stata così vivida che ho deciso di utilizzarla. Poi si sono preparati senza di me, ci conoscevamo ma non lavoravamo insieme. Questa cosa mi ha proprio cambiato la prospettiva attraverso cui vedo quello che ho scritto in passato».
Un concetto che lei pone spesso è quello di una musica ecologica. Se la biodegradabilità della materia è un problema molto attuale, lei crede che musica possa subire un analogo processo di degradazione?
«L’aspetto biologico come può essere la differenziazione dei rifiuti musicali non mi interessa tanto. Ciò che mi interessa davvero è che la musica possa riscoprire il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente che era ed è tutt’ora negato nell’insegnamento della composizione all’interno dei Conservatori. La scissione tra una sorta di musica pura e quello che è il nostro modo di vivere la musica è una cosa insana. Non posso dire innaturale, ma certamente frutto di una ruotine, un modello molto provvisorio che invece è diventato l’unico di riferimento. Questa è una cosa che porta a castrare la creatività. Per me questa è sempre stata una problematica improntate. La creatività non è un esercizio linguistico, ma qualcosa che va coltivata fin dall’inizio. Non si impara a scrivere una poesia imparando la grammatica e se parti da quella non arriverai mai alla poesia. Purtroppo la composizione di studia in questo modo. Questo modo di percepire il modo andrebbe subito disciplinato, allenato e ampliato fin da bambini. Infatti i bambini hanno una creatività fresca che poi viene messa da parte mentre al contrario andrebbe riconquistata o collegata alla creatività dell’adulto. Qui esistono problemi che sono soprattutto sociali, non è solamente un problema estetico riferito a una musica ecologica. Ecco il perché di questa mia definizione. Il punto centrale è che dovremmo rovesciare tutti i concetti che noi usiamo che sono molto comodi e pratici, ma anche distruttivi dell’uomo.
Quarant’anni fa venivo criticato per questo approccio diretto al mondo della natura, anche se in realtà non è diretto visto che si tratta di stilizzazioni. Al mondo della natura, al linguaggio degli altri esseri viventi e alla percezione del nostro modo di percepire. Queste erano le linee principali con cui si presentava ala mia musica quarant’anni fa. Questa era un’eresia spaventosa che veniva criticata sia direttamente sia indirettamente, attraverso l’esclusione.
Io però ho tenuto duro, perché di questo non è che ero convinto. Avevo necessità di questo, era la mia necessità perché era il mio modo di vedere il mondo e quindi l’ho sostenuto e sviluppato anche se non avevo nessun riscontro.
Ecco perché quando all’estero mi hanno scoperto vengo considerato un vecchio maestro…
Nono, quando mi scriveva le sue dediche meravigliose mi chiamava “caminante esemplare” proprio per questo motivo. Lui su questa strada ci si era messo dopo, io invece l’avevo praticata fin da bambino. Ad esempio la scoperta del suono, la sua realtà fisica e psicologica».
Quando Nono sperimentava l’elettronica non era forse ecologico?
«Direi di no, l’ha avuto di riflesso a me. E’ stata un’influenza molto forte. Nono a un certo punto a cominciato a dedicarmi delle cose. Ero forse l’unico compositore veramente sostenuto da lui. E questa era la sua amicizia nei miei confronti di cui rimane traccia nelle lettere, pagine di manoscritti. Ricordo che fece un concerto a Santoriol con un programma che comprendeva i suoi maestri, quindi Gabrieli, Webern, Maderna, poi io e lui. Io non finivo mai di ringraziarlo perché per me è stato il più grande sostenitore che abbia avuto. Quando è morto ho ricevuto dalla Ricordi un foglio che mi riguardava e che non sapevo cosa fosse. Era la presentazione che faceva del mio pezzo e che ho scoperto dopo che era morto. Una presentazione quasi imbarazzante, non per gli elogi, ma perché lui capiva quello che facevo».
Che pezzo era?
«Lui aveva scritto Tarkovskij per il Santoriol, era mi pare l’88. E il mio pezzo era L’allegoria della notte per violino e orchestra. Questa presentazione l’ho usata per il mio catalogo perché è preziosa per inquadrare, ma anche divertente perché è un testo ironico, leggero».
[intervista in parte contenuta su «Musicalmente» anno 6 n1, dicembre 2009/gennaio 2010]
© altremusiche.it / Michele Coralli
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