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In occasione dell’ottantesimo compleanno di Steve Reich, l’ensemble Sentieri Selvaggi inaugura la propria stagione con un concerto monografico: vengono eseguiti alcuni brani ”storici” come Clapping music, New York Counterpoint e Vermont Counterpoint, insieme ai più recenti Quartet, Mallet Quartet e Dance Patterns, ognuno dei quali introdotto sapientemente da Carlo Boccadoro con abituale chiarezza e concisione.
I brani storici a nostro avviso i più convincenti: Clapping Music – eseguito impeccabilmente da Boccadoro e Dulbecco e poi rieseguita come bis in forma riarrangiata (e in maniera magistrale) da Andrea Dulbecco – ci riporta al periodo d’oro della produzione di Reich, quando il compositore statunitense era interessato esclusivamente al processo. La forma cioè viene da lui intesa come risultato finale di un processo compositivo rigoroso: in altre parole un modo di pensare la musica oggettivo, ovvero chirurgico, quasi ascetico.
Drumming, Piano Phase, Four Organs e anche il brevissimo Clapping Music sono alcuni dei titoli che nascono in questa felice fase creativa, che influenzò notevolmente – e trasversalmente – la produzione musicale della seconda metà del XX secolo.
Dopo la fase minimalista Reich abbandona il “processo” per lasciarsi andare a una libera invenzione, nella quale l’elemento ritmico è sempre prevalente, pur non essendo più sostenuto da percorsi obbligati. L’esplorazione dei processi di phasing (di ispirazione elettronica) si interrompono, il soggetto vuole uscire allo scoperto, abbandonando l’oggettività dei processi che erano stati messi in moto in tutto il precedente ciclo creativo. L’esperienza del periodo “del processo” sviluppa capacità ritmiche degli esecutori in una direzione ampiamente ignorata dai musicisti classici ed è in questa nuova prospettiva che Reich si dirige verso una visione soggettiva della musica: l’io vuole la sua parte (come dargli torto?).
Di questo periodo fanno parte i due sfavillanti counterpoints, in questo caso eseguiti alla perfezione da Paola Fre (flauti) e Mirco Ghirardini (clarinetti). Entrambi suonano sopra nove parti preregistrate e mixate per costituire una base su cui poi aggiungersi dal vivo. Il risultato sonoro, anche grazie al paziente lavoro in studio e al virtuosismo degli interpreti, è irresistibile e il pubblico giustamente lo ribadisce.
Tornando all’ego, in questa seconda fase i processi diventano locali, danno agio cioè all’invenzione che consiste nel passare da stati differenti con maggiore libertà, ovvero senza una rigidità univoca che implica l’utilizzo della forma rigorosa. Reich abbandona infatti la forma oggettiva, pur rimanendo però sempre indissolubilmente legato a una visione ritmica e perennemente pulsata della musica. Per far questo utilizza principalmente elaborazioni canoniche, ostinati, accentuazioni di sapore afro, hoquetus… Il tutto sostenuto da un’intervallazione verticale che rimanda al jazz modale.
Alla lunga la pervasività di tali costruzioni ritmiche, anche se elaborate con tutta la sapienza maturata negli anni, regala esiti monocromi e fin stucchevoli. La luminescenza degli impasti verticali viene alla fine vanificata dalla pulsazione ossessiva non sempre convincente, da trasposizioni repentine di interi blocchi di dubbio gusto e da una forma (perennemente) tripartita con un tempo lento al centro e con tanto di accumulo finale nel registro acuto, interrotto poi improvvisamente in modo fin troppo prevedibile. Certamente anche quella dell’ultimo Reich è una musica piacevole, ludica, fin divertente per gli esecutori che la interpretano. Ma, al di là di questi pregi, si rimpiangono gli spazi sconfinati che si intravedevano nel primo periodo.Tutto quello che abbiamo ascoltato, è vero, ci parla certamente di Steve Reich, dei suoi ascolti musicali, del suo gusto e della sua formazione, ma toglie di scena il mondo metafisico che anni fa aveva incantato molti di noi, in altre parole quella necessità che esprime se stessa in un periodo che vogliamo continuare a considerare come quello d’oro di uno dei padri del minimalismo.
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