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Accade raramente che da una trasmissione radiofonica germogli un’attività concertistica autonoma (solitamente, infatti, il percorso naturale è quello inverso). Ma è esattamente quello che è successo con Sentieri Selvaggi. L’iniziativa nasce due anni fa come approfondimento nella musica contemporanea all’interno di Mattinata, una trasmissione con concerti in diretta, condotta su Radio Popolare da Angelo Miotto e da Filippo Del Corno. Dopo alcuni concerti dal vivo e una positiva risposta del pubblico, Sentieri Selvaggi diventa un’Associazione culturale che ha come scopo quello di promuovere i giovani compositori e di diffondere in Italia musiche nuove di derivazione non accademica. L’occasione migliore per farlo sarà sicuramente il festival che si terrà a Milano, al Teatro di Portaromana (nei giorni 16/2, 24/3, 4/5 e 25/5) dal titolo “Gli amici americani”, che comprenderà quattro itinerari all’interno della musica americana (ma non solo) contemporanea. Chiediamo direttamente a Del Corno delle informazioni sulle esperienze passate e sui progetti futuri.
Come si lega la vostra esperienza radiofonica con i concerti dal vivo che ora promuovete?
«È capitato spesso che dopo la nostra trasmissione molti ascoltatori telefonassero per avere più informazioni sulla musica che avevamo eseguito e ricordo dei casi di fanatismo quasi rock, come alla presentazione del ciclo di ballate per pianoforte Le Onde di Ludovico Einaudi. Allora ci siamo accorti che esiste un pubblico molto interessato alla nuova musica colta, ma che fa fatica ad entrare in contatto con essa anche per colpa delle grandi istituzioni demandate alla promozione della musica colta che sono rimaste legate ad un concetto dinosaurico di musica contemporanea».
Che differenza c’è allora tra il vostro concetto di musica contemporanea e quello delle istituzioni?
«I musicisti “istituzionali” sono pochi e quasi sempre gli stessi. Sono sempre musicisti d’accademia e sembra che non abbiano interesse per ciò che c’è di nuovo al di fuori di essa. A mio parere le novità di questi anni sono da ricercare in quel processo turbolento di continua metamorfosi e contaminazione. Questo significa dialogo tra generi musicali diversi, tra pratiche strumentali e tradizioni diverse. In Italia invece si crede erroneamente che fare contaminazione significhi far cantare Pavarotti e Zucchero insieme… La vera contaminazione avviene, ad esempio, quando musicisti di area colta, che, cioè, hanno gli strumenti per scrivere la musica, entrano in contatto con tradizioni musicali in cui la musica non viene scritta, bensì direttamente suonata o improvvisata. I compositori colti cristallizzano, attraverso il processo della scrittura, queste esperienze, mettendole in grado di dialogare con la propria tradizione».
Prima hai parlato del pubblico della musica contemporanea, vuoi dirci qualcosa di più?
«Esiste un pubblico interessato alla nuova musica, che però non è lo stesso della musica colta tradizionale. Noi abbiamo deciso di incontrarlo dal vivo per conoscerlo più da vicino. Abbiamo per questo formato un gruppo musicale assieme a Carlo Boccadoro, che, con me e Angelo, ha contribuito a selezionare gli esecutori e i brani da presentare volta per volta. Per quanto riguarda i primi abbiamo cercato persone realmente interessate al progetto e al tipo di musica. In secondo luogo ci interessava la presenza, all’interno del gruppo, di musicisti che praticassero anche altri generi. Ad esempio il percussionista Andrea Dulbecco, il pianista Andrea Rebaudengo e la cantante Roberta Gambarini sono tutti legati al jazz».
Quali sono state le tappe di questo rapporto diretto con il pubblico?
«Abbiamo debuttato a Milano nel giugno scorso, all’interno della rassegna Suoni e Visioni, durante la quale abbiamo avuto una risposta da parte del pubblico davvero impensata. Forti di questo successo abbiamo continuato con un concerto per l’inaugurazione del Teatro dell’Arte CRT e un’esibizione al Salone della Musica durante la sua ultima edizione».
E finalmente arriviamo al vostro ultimo progetto…
«Sì, abbiamo messo in piedi un festival che comprende quattro concerti da febbraio a maggio e che si occuperà di quelli che noi abbiamo definito ‘Gli amici americani’, ovvero tutti quegli autori statunitensi che hanno avuto una grandissima influenza sulla musica europea e che dalla cultura ufficiale italiana non sono stati compresi (anche se le cose ultimamente stanno cambiando). Mi riferisco in particolare al progenitore di tutti gli atteggiamenti compositivi che ci interessano, ossia John Cage a cui viene dedicata una serata monografica (il 24/3). Nel corso del festival verranno presentati brani di altri importanti compositori. Avremo tre prime italiane: Proverb di Steve Reich, A Madrigal Opera di Philip Glass (il 16/2) e Gnarly Buttons di John Adams (il 4/5). Tratteremo poi anche compositori della generazione successiva ai cosiddetti minimalisti: Julia Wolfe, Michael Gordon, Michael Daugherty, Aaron Jay Kernis e David Lang, che ha scritto un pezzo appositamente per il nostro gruppo. Ognuno dei pezzi in programma ha un titolo che rappresenta un percorso d’ascolto: Voci (in cui il filo conduttore è la voce umana), Le stanze del gioco e della musica (titolo ispirato a Cage), Domande e risposte (in cui si prende spunto da The unanswered questions di Chales Ives per formulare sei ipotetiche risposte musicali) e In Do (poiché una delle scelte di molti di questi ‘amici’ è stata quella di ritenere possibile scrivere musica in DO, cioè consonante, senza che questo volesse dire ritornare alla tonalità)».
«Vorrei sottolineare – aggiunge Angelo Miotto – l’aspetto importantissimo della comunicazione. Prima infatti abbiamo portato il concerto in radio, ora portiamo la radio in concerto. Ma in pratica non è cambiato molto: dal vivo ogni brano viene presentato attraverso una breve introduzione di non più di due minuti che dà ragione di alcuni aspetti tecnici del brano stesso, nel modo meno accademico possibile. Ciò viene fatto proprio per contrastare ogni tipo di diffidenza o resistenza da parte del pubblico nei confronti del repertorio contemporaneo. La presentazione è un elemento molto radiofonico che dona anche spigliatezza al concerto, ma allo stesso tempo fornisce quei paletti di riferimento per l’ascolto di un pezzo nuovo».
da: “il Giornale della Musica”, n.135, 1998 © altremusiche.it / Michele Coralli
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