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Ce li avevano annunciati e per quanto ci riguarda siamo i primi a parlarne dalle nostre parti. I Soft Works, nati per merito del veemente sprone del produttore Leonardo Pavkovic, si presentano anche in Italia, dopo lunghe e turbolente vicissitudini legate alla distribuzione internazionale del loro primo lavoro: Abracadabra, questo il titolo del disco della band che porta, non a caso, il logo “Soft”, qui associato al più generico suffisso “Works”, invece del burroughsiano “Machine”. Ma la scelta dei nomi non è mai stato il punto forte di molti di quel giro che si sono sbizzarriti nelle peggiori operazioni di riciclo (basti pensare a roba già vista tipo Caravan of Dreams o Soft Heap…).
E in effetti anche qui dentro ci troviamo qualche vecchia conoscenza del giro progressivo, ad iniziare dai più tipicamente Soft, ovvero quel Hugh Hopper e quell’Elton Dean che hanno legato il loro nome ai migliori momenti della band di orbita canterburiana. Gli altri due, Marshall e Holdsworth, probabilmente meno amati dai fans in quanto, uno sostituto di Robert Wyatt al momento della svolta jazz-rock, l’altro elemento di un gruppo ormai allo sfascio, segnato da quel poco glorioso album che porta un titolo amaramente azzeccato di “Bundles” (gruzzoli). Ebbene questi i fantastici quattro che compongono la reunion, operazione che non sempre risulta degna di amori sviscerati.
Diciamo questo però per mettere subito le mani avanti rispetto a un tipo di operazione che non può non essere stimolata da un profondo senso di nostalgia, più che dalla proposizione di nuovi impulsi creativi. I Soft Works però suonano in modo che farebbe invidia a molti, per la compostezza e per l’amalgama che sembra il frutto di anni di assidui contatti: Elton Dean sembra aver migliore controparte in Hugh Hopper e Allan Holdsworth, mentre Marshall, già all’opera nel trio di marca ECM di Vassilis Tasbropoulos, riprende il gusto per una batteria più vibrante e sanguigna. Il jazz-rock dei Soft Works, velato da un sottile strato di fusion (e qui la colpa è del solito Holdsworth…), è puro e genuino. I toni softmachiniani sono molto più sfumati di quello che avrebbe potuto apparire in un primo tempo (la sola cover che i quattro eseguono dal vivo pare essere solamente Facelift, ma non so quanto i Nostri potranno resistere alle richieste). Qualche suono di vecchia marca “Soft” (ma c’è anche un’ombra di Ornette Coleman) esce dalle composizioni di Hopper, imperniate su quel basso fuzz che lo ha reso famoso. Mentre un bel pezzo di Dean, Willie’s Knee, eseguito al piano su una morbida e seducente ritmica quasi blues, ci da il senso di un gruppo di musicisti con scarsa propensione alla sperimentazione (del resto questi davvero “hanno già dato”), ma con un talento da vendere, che, in tempi di mediocri e insulsi revival, non è cosa da poco per chi vuole ascoltare della musica ben suonata.
2002 © altremusiche.it
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