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È uno dei jazzisti italiani più noti, sia in Italia che all’estero, e non solo per le sue indiscutibili qualità musicali, ma anche per certe doti da “personaggio” eclettico e fuori dai più convenzionali costumi castigati del jazz. Stefano Bollani con un diploma al Conservatorio di Firenze e una gavetta nel mondo del pop (da Raf a Jovanotti), prima di avviare una fortunata carriera solista, ha potuto “farsi le ossa” al fianco di affermatissimi musicisti come Richard Galliano, Paul Motian, Gato Barbieri, Pat Metheny, Michel Portal, Lee Konitz, Han Bennink e molti altri. Diverse le apparizioni in radio o al fianco di molti personaggi dello spettacolo. Per Label Bleu ha realizzato Les fleures bleues, omaggio allo scrittore Raymond Queneau, Smat smat e Concertone assieme all’Orchestra Regionale Toscana. La collaborazione con Enrico Rava lo ha introdotto nel mondo ECM e oggi può vantare per la casa di Monaco l’incisione di Piano Solo. Partiamo proprio da questo progetto.
«È da quando ho conosciuto Manfred Eicher, cioè mentre registravamo anni fa Easy Living di Rava, che si parla di incidere qualcosa a mio nome. Non abbiamo focalizzato il progetto finché non abbiamo capito che l’ideale per iniziare questa collaborazione – che speriamo vada ancora avanti – sarebbe stato proprio un piano solo. In realtà, essendo Eicher un produttore molto attento, è diventato quasi un progetto in duo. In studio lui è molto presente, anzi, è uno dei pochi produttori di jazz che segue davvero la musica che si sta registrando. Nonostante la sua immagine sia quella di un personaggio invasivo, visto che molte produzioni ECM hanno un suono molto riconoscibile, in realtà non lo è affatto. Io gli ho proposto un omaggio a Sergej Prokof’ev. Però, quando siamo arrivati in studio a Lugano, all’Auditorium della Radio della Svizzera italiana, dopo una ventina di minuti che suonavo, mi sono reso conto che quella era una gabbia talmente grande che sarebbe stato meglio iniziare a improvvisare liberamente. Ed è quello che ho fatto. Il disco, quindi, è un omaggio a Prokof’ev per modo di dire: c’è solamente un brano che ho riarrangiato. La particolarità semmai è che per due settimane, prima dell’incisione del disco, ho ascoltato e rielaborato molte musiche di Prokof’ev. E, pur avendo improvvisato anche su altre cose, nella testa avevo sempre molta musica di quel compositore. Alla fine credo che armonicamente e ritmicamente ci siano molti rimandi».
Conoscendo il tuo estro e la tua ironia viene quasi da pensare che hai portato un po’ di “serenità” in ECM…
«Non lo so. Il disco credo che sia molto compatto. La scaletta che abbiamo fatto è stata pensata per essere eseguita tutta in un fiato. Ad un certo punto, però, arrivano delle cose che forse uno non ci si aspetterebbe da un disco ECM, come il ragtime di Scott Joplin o il vecchio tango A media luz. Ma ci stanno bene anche questi pezzi. In generale non so se è venuto fuori un disco ECM. Chi lo ascolterà potrà giudicare da solo».
Ripercorriamo la tracklist. Si inizia da Antonia di Antonio Zambrini.
«È un pezzo che mi piace. Lo suono ogni tanto dal vivo in solo. Lo avevo sentito nel disco e mi aveva colpito subito. Non ci sono elaborazioni particolari, il brano è rimasto quello che è nell’originale».
Poi inizi con le improvvisazioni…
«In tutto ci sono quattro improvvisazioni libere. Quando improvviso mi costruisco una struttura passo per passo. Si tratta di un percorso logico per uno che ha studiato musica classica, ma che è anche abituato a suonare in contesti pop, ambiti in cui la struttura è molto importante. A volte, quando improvviso liberamente, si può avere la sensazione che la struttura non ci sia, ma in realtà c’è. Per questo mi sento un compositore anche quando improvviso. Se noti la durata delle improvvisazioni è di circa tre minuti, quasi una forma-canzone».
L’omaggio a Prokof’ev si riduce quindi all’arrangiamento di un movimento del Primo Concerto per pianoforte. Avevi in mente altre composizioni?
«Sì volevo improvvisare delle cose dal balletto Romeo e Giulietta, qualche tema da Pierino e il lupo, e il divertimento per pianoforte dalle Visioni fuggitive. Considera che Piano Solo e I visionari (Label Bleu), che si ispira nel titolo proprio a quell’opera, sono nati nello stesso periodo: diciamo un “periodo Prokof’ev”».
…che è un autore che ha scritto pagine molto impegnative, anche per un pianista classico.
«Sì assolutamente. Infatti non suono Prokof’ev. Non sono mica matto! Me lo studio a casa perché mi piace molto soprattutto per sue alcune soluzioni armoniche».
Quali altri autori classici credi che abbiano avuto un’influenza nella tua formazione?
«Tutti i francesi del primo Novecento e più in generale tutto il primo Novecento con Stravinskij. Ai tempi del Conservatorio mi sono innamorato della musica classica per merito di Debussy, Ravel, Satie e del Gruppo dei Sei, da Honegger a Poulenc e Milhaud. In generale credo che sia una musica abbastanza vicina al jazz dal punto di vista armonico e, a tratti, anche nel risultato. Una musica, cioè, con una forte propensione a quel poco di suoni etnici che quel mondo frequentava: pensiamo a Milhaud e all’habanera brasiliana. Ovviamente niente di paragonabile a quello che si fa oggi in tema di contaminazioni. Questi autori però si sono fatti stimolare anche dal jazz, come Stravinskij o Debussy che hanno scritto cose molto belle partendo da un’ispirazione jazzistica e finendo da tutt’altra parte».
Hai qualche rapporto con un pianismo più contemporaneo?
«Sì, anche se non credo che si senta nella mia musica. Ho una qualche relazione con un compositore, che purtroppo è scomparso due giorni fa, che è Gyorgy Ligeti, in assoluto il mio contemporaneo preferito. Anche se non è bello fare classifiche, credo che lui stesse una spanna sopra agli altri quanto a inventiva, creatività e libertà. Non si è mai fatto incasellare in qualche scuola e, di contro, non ho mai sentito una cosa sperimentale fine a se stessa, soprattutto nella sua musica per pianoforte, in cui ho sempre trovato cose molto interessanti, vicine, per altro, a certo jazz contemporaneo. Ci sono anche altri compositori che mi piacciono come Conlon Nancarrow, molto più bizzarro, o Alberto Ginastera, che invece è molto più “classico”».
Una delle tappe obbligate del jazzista sembra continuare a essere lo standard, come dimostri nel confronto con classici come For All We Know, interpretata, tra gli altri, anche da Billie Holiday.
«Io ho iniziato proprio con gli standard assieme a Luca Flores, prendendo Parker, Monk, ma soprattutto il repertorio del Real Book. Poi ho iniziato a trascrivermi le canzoni che mi piacevano, come For All We Know che ho ricavato da un disco, credo, di Ray Charles e Betty Carter. Ma sono tantissimi i brani che ho suonato, proprio perché il mio rapporto con la forma-canzone è molto vivo. In particolare quello con la canzone americana dei grandi, come Gershwin o Cole Porter, così come con quella dei cosiddetti minori».
Quindi lo standard lo senti ancora come un passaggio obbligato?
«In generale credo che lo standard non debba per forza essere un passaggio obbligato per chi suona jazz. Per me sì, ma unicamente perché la mia formazione si lega in modo profondo agli standard. E lo si vede anche nei miei concerti in solo, durante i quali suono gli standard più delle mie canzoni. Certo, poi, per quanto mi riguarda, il concetto di standard si allarga fino a includere brani come Frame By Frame dei King Crimson. E la stessa cosa vale per Herbie Hancock o Danilo Rea, che eseguono brani dei Led Zeppelin o di Elton John. La tradizione americana è importante, ma c’è un sacco di gente che suona brani interessanti senza per forza fare My Funny Valentine».
Vedo infatti che in questo Piano Solo c’è Don’t Talk dei Beach Boys.
«La cosa fondamentale è che una canzone mi deve piacere, ma soprattutto è importante che io possa inventare qualcosa di diverso rispetto all’originale. Mi piacciono molto Donald Fagen e Billie Joel, ma li apprezzo solamente da ascoltatore perché sento che mia rilettura non riesce a gettare una luce diversa su quelle canzoni. Mi diverto a cantare un brano di Joel alla sua maniera, ma lo faccio solamente per me, per gli amici o al sound check. Non sono un grandissimo fan dei Beach Boys e non ho suonato tutto Pet Sounds, mentre ho finito Revolver dei Beatles, ma alla fine ho suonato Don’t Talk e nessun brano di Revolver».
La rilettura di Maple Leaf Rag di Scott Joplin invece è molto personale, hai tolto addirittura delle note dalle frasi originali.
«Maple Leaf Rag è uno di quei brani che suono spessissimo. Ho iniziato a dieci anni ad ascoltare il jazz attraverso un disco di Joshua Rifkin che eseguiva Scott Joplin. Tra l’altro per errore ascoltavo l’LP a 45 giri con il risultato che per me quei pezzi risultavano velocissimi. Quando mio padre si è accorto dell’errore e me l’ha rimesso a 33 giri, sono rimasto molto deluso perché pensavo che a quella velocità fossero buoni tutti. Rifkin in effetti esagerava in lentezza, mentre l’ascolto a 45 giri era troppo veloce. Adesso cerco una via di mezzo e riscopro la vitalità di quella musica improvvisandoci sopra. Ogni volta che suono un brano così legato a un’epoca è un po’ come se ci stessi mettendo una cornice sopra o delle virgolette. Se dico: vi suono il “ragtime”, gioco con una cosa che tutti conoscono, smontandola a mio piacimento».
Parliamo di strumenti. In casa che pianoforte hai?
«Io ho da sempre uno Yamaha C2, uno strumento che mi comprarono i miei genitori. Non è un grandissimo pianoforte, ma ce l’ho da vent’anni. Ho intenzione di cambiarlo, ma continuo a tenerlo per motivi affettivi. Non l’ho scelto io, ma ne fui molto contento all’acquisto, dato che provenivo da un verticale. In generale i pianoforti Yamaha mi piacciono soprattutto per la brillantezza del suono. Avrei anche delle tastiere e dico avrei perché sono chiuse e imballate da due traslochi fa. Quando facevo tournée pop ho dovuto prendere uno Yamaha DX7 con un po’ di expander come il TG77 e il TG500, e un piano digitale SP8 Roland, che ho usato anche per le serate nei club. In casa ho anche una fisarmonica che suono molto raramente solo per una scelta di colore, un po’ come quando utilizzo la voce».
Visto che hai intenzione di cambiare pianoforte, ti stai già orientando su qualche modello?
«Non penso a un grancoda da mettere in casa, perché credo che sia meglio suonare un pianoforte di livello inferiore rispetto a quello che potrei trovare in concerto. Se ti abitui troppo bene, poi quando vai in giro a suonare non puoi richiedere il tuo pianoforte preferito, a meno che tu non sia Andras Schiff. Spesso invece ti scontri con dei pianoforti che sono meno belli del tuo, per cui non mi dispiace l’idea di avere uno strumento di qualità media. Comunque ci sto pensando proprio in questi mesi e sicuramente mi orienterò su un livello simile al mio attuale: uno Yamaha mezzacoda o un tre-quarti, ma non un grancoda Steinwey, Fazioli e nemmeno Yamaha, che ovviamente sono i miei tre pianoforti preferiti».
Il computer ha un qualche ruolo nella tua vita musicale?
«Mi piacerebbe usarlo di più. Ho lavorato con persone che lo utilizzano molto bene, anche se personalmente non ho mai avuto il tempo, o forse la voglia, di lavorarci. Il mio utilizzo della tecnologia è proprio a livelli base. Se mi viene un’idea, la registro con il walkman e scrivo a mano tutte le partiture per il mio gruppo. Insomma, il computer non lo uso per fare musica. È la stessa cosa che mi succedeva con le tastiere dieci anni fa. Le usavo con le patch preimpostate, ad esempio con i suoni dell’organo Hammond, e mi accontentavo di quelle perché non avevo voglia di cercare un suono migliore».
Quindi la categoria strumenti virtuali rimane un mondo per te molto distante.
«È una cosa che in futuro non escludo, anche perché le tastiere usate come tastiere mi piacciono. Il problema è quando senti una tastiera suonata da un pianista che rimpiange un pianoforte. E non parliamo del contrario, ovvero di un pianoforte suonato da un tastierista. Ottenere questo tipo di effetto mi dispiacerebbe molto».
In un’estate ricca di appuntamenti dal vivo ti capitano situazioni molto diverse tra loro. Quali sono gli ambienti migliori per un tuo concerto?
«Il teatro piccolo, un luogo che è in grado di mantenere la vicinanza del pubblico. Il palco e le luci abbassate sono cose che mantengono un’attenzione che manca nei jazz club. Direi allora una via di mezzo tra l’Auditorium della Radio di Colonia e il jazz club di New York. L’ambiente più divertente per me è quello più raccolto, diciamo il tradizionale teatro all’italiana».
da “InSound”, n9, settembre 2006 © altremusiche.it / Michele Coralli
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