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Il pianoforte del Bussotti dopo Five Piano Pieces for David Tudor: un percorso ad ampie falcate temporali attraverso lo strumento collettivo, condiviso, stratificato, che si muove attraverso il coinvolgimento di più mani e – se vogliamo – di più pensieri strutturanti, quali sono quelli degli interpreti di queste partiture.
Si parte da PER TRE sul piano del ’59, che già nel titolo sembra suggerire un’idea quasi surrealista dello “stare sul piano”, piuttosto che di suonarlo. In realtà è sul progetto di partitura grafica che “incoraggia la reinvenzione” in maniera cageana che si concentra Bussotti in anni in cui l’avanguardia non ha alcun timore nel buttare il cuore al di là dell’ostacolo. Ne discende una musica dura, aspra e, alla luce del suo percorso storico, assai fascinosa. Si passa attraverso opere come La vergine ispirata per clavicembalo e altre tastiere (presente l’autore e una serie di pianoforti preparati) o Le pietre di Venezia, due lavori in cui le strutture vengono suggerite da linee che lasciano ampie libertà agli interpreti, per giungere a 12 Folie d’après François Couperin le Grand per violino e pianoforte e Quattro pianoforti, rispettivamente del 2008 e 2010.
Ed è proprio su opere come queste che si può saggiare il punto di approdo di un percorso compositivo che prende le mosse dalla ricostruzione musicale del Dopoguerra e che attraversa mezzo secolo di sperimentazione per arrivare a noi. Sia nel “ricalcare” post-modernisticamente Couperin che nello sviluppare l’interplay dei quattro interpreti (Ciro Longobardi, Giovanni Mancuso, Aldo Orvieto e Debora Petrina) Bussotti sembra aver distillato a tal punto quell’idea di libertà indotta dal triplice rapporto tra suono, segno e gesto, da farne scaturire trame dal rigore millimetrico e dall’apparente controllo assoluto. Lavori quindi adatti a chi si chiede dove sia andata a parare l’avanguardia in questi anni di diaspora.
2014 © altremusiche.it
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