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Non è mai esistita una tradizione autoctona di rock progressivo negli Stati Uniti. Ogni sforzo in quella direzione si è sempre dimostrato eccessivamente legato ai modelli britannici, probabilmente a causa della mancanza della capacità combinatoria di elementi extra-prog, che invece ha caratterizzato parte degli approcci di alcuni gruppi di casa nostra (salvo le insostenibili eccezioni del caso). Dove sia andato a parare questa branchia di rock in questi ultimi anni non fatichiamo a immaginarlo: dopo il periodo, per così dire, neoclassico degli anni ’80 dei vari Marillion, Pallas, IQ, a quanto ci consta siamo entrati oggi in pieno manierismo globalizzato. Le scuole prog pare che nascano come funghi soprattutto nei paesi in cui più forte appare il peso omologante dell’occidentalizzazione (dall’Indonesia al Giappone, tanto per limitarsi a quella zona). È anche vero che in pittura anche il Manierismo ha avuto i suoi capolavori e non si può disconoscere che, anche in ambiti che tendono a ripetere alcuni modelli in modo accanito, possano farsi largo gruppi con proposte interessanti o idee non strettamente derivative.
Parlando di Tripod, gruppo newyorkese attivo fin dal 1998 qui alla loro prima uscita, chi ha alle spalle prolungati ascolti di dischi di rock progressivo, non può non lasciarsi andare a considerazioni come queste.
Poi si può qui apprezzare però il grande valore della band: uno scoppiettante trio sax/basso/batteria che ha nella potenza il suo impatto migliore. Impressiona la “quantità” di suono in un trio sguarnito di strumenti che producono spessore come chitarre o tastiere. Sotto questo aspetto manca ogni pomposità, anzi, al contrario, anche nell’organizzazione dei brani bisogna riconoscere che i Tripod sanno concentrare i loro sforzi in canzoni dalla breve durata, sapendo evitare la proverbiale prolissità di certe menti suite-oriented di ambito progressivo. Il plauso maggiore spetta a Clint Bahr (cantante alle prese con un basso 12 corde e pedaliera), vero cuore pulsante del gruppo: le sue trame sanno dare forza al trio e come bassista si fa davvero notare. Keith Gurland (sax alto e tenore, flauto, clarinetto e cori) rimane fedele al modello Mel Collins: pulito e preciso. Qualche relazione: Pallas, Audience (fiati e qualche stacco molto seventies), Gentle Giant (qualcosa), Cream (preso pari pari il giro di White House), Primus e Limbomaniacs (l’acid-funky dei Tripod è il lato più interessante dei tre); ci sarebbe quasi la volontà di agganciarsi ai King Crimson (in certi casi quelli di “Red”), ma quelli erano un’altra cosa.
2003 © altremusiche.it
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