Viktoria Mullova e Katia Labèque: due vamp all’accademia [intervista]

Michele Coralli

Quanto i tempi siano cambiati anche all’interno del mondo della musica classica è evidente anche attraverso l’apertura di molti interpreti, capaci di scegliere sempre più frequentemente repertori che pescano a piene mani dai diversi mondi musicali. Il testimone, passato nelle mani di una nuova generazione aperta al possibile, porta i segni di una rinnovata attenzione nei confronti della musica di oggi (contemporanea, ma non solo) e di quella del passato recente (il Novecento appena concluso).
La russa Viktoria Mullova e l’italo-francese Katia Labèque sono maturate in diversi ambienti musicali. Ma l’ambito della sperimentazione a tutto campo le ha messe immediatamente su un terreno privilegiato: quello dell’esplorazione di ambiti poco frequentati. Le incontriamo prima del loro concerto tenuto presso la sala Verdi del Conservatorio di Milano in un recital interno alla Stagione 2001/02 della Società del Quartetto.

Come sono andate le prove? La sala Verdi è stata da poco ristrutturata. Siete soddisfatte del suono?

Katia Labèque: «Sì, sono andate bene. Penso che l’acustica sia pur sempre un po’ secca. Anche se, per essere onesti, non vedo molte differenze rispetto a prima. Non è un ambiente enorme, anche se il suono comunque non è male.Vedo che la sala ora è più pulita. La cosa che avrebbe potuto essere curata meglio sono le luci».

Viktoria Mullova: «Adesso però con le spot lights è senza dubbio meglio. Però non è come la Scala. Una volta ho suonato lì e devo riconoscere che c’è tutta un’altra atmosfera».

Questa è la prima tournée del duo e quello di stasera è il vostro quinto concerto. Parliamo della vostra collaborazione. Da quanto tempo suonate insieme?

VM: «Siamo amiche da tanti anni. La nostra collaborazione è nata anche perché la sorella di Katia, Marielle, con cui suonavano in duo, ora lavora con suo marito. Così Katia è molto più libera. Per provare ci vediamo ogni tanto a Londra (dove vive la Mullova, NdR), a Parigi o a Firenze (residenza della Labeque, NdR). Abbiamo appena iniziato come duo, ma già abbiamo tanti concerti in programma».

KL: «Sì, sono tantissimi anni che ci conosciamo. Abbiamo suonato insieme già nel 1997 con Le Carnaval des animaux di Saint-Saëns. Come duo abbiamo iniziato le prove nell’ottobre del 2000».

E quando vi siete conosciute?

VM: «È stato in occasione del festival di Tanglewood nell’86 o ’87. In quell’edizione eravamo insieme a Wynton Marsalis e moltissima altra gente».

KL: «Io ho sempre fatto cose diverse. Dal ’94 insieme a mia sorella mi sono davvero consacrata alla musica classica. Marielle voleva che ci concentrassimo sul repertorio classico, lasciando da parte quello contemporaneo e il crossover. Nel momento in cui suo marito è stato trasferito in Germania, mi mancava una partner. Ma un giorno Vika (soprannome della Mullova, Ndr) mi ha detto: “Il tuo tempo libero me lo prendo io”. È lei che ha fatto tutto: ha scelto anche il programma per i nostri concerti».

VM: «L’idea di quello che avrei potuto fare con Katia mi è venuta all’improvviso. Mentre ero a letto a riposarmi mi è venuta l’illuminazione e mi sono detta: “So cosa fare con Katia”».

E cioè cosa?

VM: «Schubert, Stravinskij e Ravel. (il programma del concerto del duo comprende: Suite italienne di Stravinskij, Falling to the Sky di Maric, Fantasia in do maggiore op.159 e Sonata n.2 in sol maggiore di Ravel, NdR) Tutti pezzi che si sposano molto bene con il temperamento di Katia. In più abbiamo aggiunto il pezzo di Maric, scritto appositamente per noi».

KL: «Falling to the Sky l’abbiamo scelto insieme tra le partiture di tantissimi giovani compositori, tutti sconosciuti. Anche Maric è sconosciuto, ma la nostra idea è quella di suonare partiture ancora poco note per far scoprire tutti quei giovani musicisti che fanno ottima musica e che vogliono incominciare ad avere un rapporto con il pubblico. Dave Maric viene da un mondo molto diverso, quello del jazz e del pop. Ha lavorato molto con Steve Martland e fino a poco tempo fa faceva parte anche del mio gruppo».

Quindi l’attenzione per la musica contemporanea fa parte della sensibilità del duo. Pensate di orientare i programmi dei vostri concerti su ciò che viene composto ai giorni nostri o volete continuare sulla linea della proposta contemporanea in mezzo a brani classici?

VM: «Se la musica è bella ci piace mescolare i repertori. Però con dei limiti. Ad esempio non mi interessa più riprendere in mano le sonate di Beethoven o di Brahms. Le ho fatte così tante volte, che adesso sono un po’ stufa. Nei programmi dei violinisti ci sono sempre Brahms, Beethoven e Schumann, e alla fine diventa un noioso ascoltare sempre le stesse cose. A noi piace fare qualcosa di nuovo».

Tra i contemporanei scegliete solo quei compositori che scrivono apposta per voi?

KL: «In primo luogo scegliamo la musica che ci piace. Io penso che quando si arriva al punto in cui siamo arrivate noi, allora è buona cosa sfruttare una certa notorietà per far scoprire dei giovani musicisti. Io e Vika abbiamo fatto la stessa cosa con i nostri ensemble: non abbiamo costituito due gruppi all star, ma abbiamo preso musicisti giovanissimi, non ancora noti al grande pubblico. Ma dire come scegliamo i pezzi da inserire nel nostro repertorio è difficile: è come se mi chiedessero come fai a scegliere l’uomo che ami. Non saprei. Ascolto un pezzo, mi piace e lo voglio suonare».

VM: «Se un pezzo riesce a comunicare qualcosa lo si capisce subito. Nella musica contemporanea a volte ascolti composizioni di cui non si capisce molto».

KL: «Sì, oppure ascolti un pezzo che è bellissimo ma pensi che non sia adatto per noi. Il motivo è molto misterioso. È un’alchimia, non c’è una spiegazione, sarebbe troppo facile. Se ci fosse una ricetta allora la metteremmo in un computer e lo interrogheremmo per sapere cosa vogliamo. Abbiamo ascoltato Trilogy su CD, un pezzo elettronico per percussioni di Dave Maric. Allora abbiamo capito che ci interessava qualcosa scritto appositamente per noi da questo compositore. Così è nato Falling to the Sky, che Maric ha scritto in due versioni: una elettronica e una acustica. Purtroppo la versione con live electronics, che è ugualmente molto bella, ha bisogno della sua presenza per l’esecuzione dal vivo».

Si tratta di una versione solamente elettronica?

KL: «No. La base è per pianoforte e violino. Nella versione che non eseguiremo stasera c’è anche una parte elettronica. Purtroppo non era stata programmata in questa tournée la presenza di Maric. Le apparecchiature elettroniche richiedono un lavoro molto complicato, pensato per un’occasione specifica».

Fare un concerto di sola musica elettronica per voi sarebbe possibile?

KL: «Certo, sarebbe possibile. Ma deve essere organizzato assieme al promotore, altrimenti arriviamo con una tonnellata di materiali, per di più anche molto costosi. Inoltre c’è anche un problema di pubblico, che deve essere quello giusto per un’iniziativa del genere. Senz’altro lo faremo in futuro. Con Vika siamo solo all’inizio. Ogni possibilità futura è da sviluppare. Abbiamo tantissimi progetti in mente: lei, tra l’altro, suonerà il trio di Brahms con mia sorella Marielle. Ma non le sonate…».

VM: «Naturalmente le sonate di Brahms e Beethoven sono molto belle. Non voglio dire che non mi piacciono. Tornerò sicuramente a suonarle, magari tra qualche anno, in futuro».

KL: «Io invece non suono Brahms. E devo confessare che preferisco le Danze ungheresi, quelle del Brahms gypsie. Forse non è quello il vero Brahms, ma mi piace molto. Poi naturalmente mi piace moltissimo ascoltarlo, ma non credo di riuscire a suonarlo molto bene. Vika invece ha scelto un programma perfetto per me, non poteva fare di meglio».

VM: «Katia ha un suono molto bello, molto delicato, in particolar modo indicato per Schubert. Sapevo che lei sarebbe stata le persona giusta per me. Ho sempre cercato qualcuno che potesse suonare Schubert in quel modo. Lo spirito di Katia è perfetto anche per Ravel e Stravinskij. Ci vuole qualcuno che si diverta mentre suona. È importante fare concerti divertendosi e non considerare la cosa solamente un lavoro. Non vogliamo suonare musica troppo seria, ma un po’ più “leggera”».

Lei però ha anche suonato Bach…

VM: «Sì, quello è un’altra cosa. Bach lo suono solo con lo strumento e l’arco barocco. Non lo suono più con lo Stradivari che uso abitualmente (il celebre “Julius Falk” del 1723, NdR), perché ho scoperto che non è tecnicamente possibile fare con un altro arco quello che Bach aveva previsto e lui aveva scritto appositamente per l’arco barocco. Se adesso suono qualche concerto con l’orchestra non posso più fare un bis con Bach, se non ho con me anche l’altro strumento».

Gira sempre con i suoi Stradivari?

VM: «Qualche volta con tutti e due. Spesso se faccio un recital con l’orchestra prendo l’altro strumento e continuo il resto del concerto con Bach in solo, come è successo in Giappone, dove ho eseguito le Partite».

E su quale strumento studia?

VM: «Su entrambi separatamente. Altrimenti dovrei cambiare diapason e le corde sono diverse: nello strumento barocco sono in budello. È completamente un altro modo di suonare, una tecnica completamente diversa».

Questo approccio filologico l’ha per caso imparato da Gardiner?

VM: «Beh, da Gardiner, così come dal Giardino Armonico, ho imparato moltissimo. Con questi ultimi abbiamo fatto un concerto insieme l’anno scorso a Graz. Con Gardiner faremo adesso i concerti di Mendelssohn, rigorosamente con le corde in budello. Sarà un’esperienza molto interessante e importante per me».

Siete impegnatissime vedo.

KL: «Eh sì. Appena finisco questa tournée andrò in America per presentare un programma con Takemitsu, Lutoslawsky e Luciano Berio. In febbraio suono quasi ogni giorno».

VM: «Per me sarà così in marzo. Tra l’altro tornerò a Milano con il mio ensemble il 6. Suoneremo il quintetto di Schubert, qui al Conservatorio. Poi suonerò con Brüggen il concerto di Beethoven e farò dei recital con i pezzi di Through the Looking Glass».

A proposito di questo lavoro si tratta dell’esperienza più crossover che lei ha fatto, confrontandosi con brani di Miles Davis, Duke Ellington e canzoni pop dei Beatles, Youssou N’Dour e Alanis Morissette. Come si è accostata a questi generi musicali?

VM: «Mi piacevano quei pezzi. Del resto anche Bartók ha preso dei repertori popolari per creare un’altra musica. Ma non è crossover, perché altrimenti anche Bach diventa crossover. Anche lui ha usato musica popolare inglese, francese e italiana per creare la sua musica. Noi facciamo la stessa cosa rispetto al tempo in cui viviamo. Ma molti non capiscono e si domandano: “Cos’è questo? Pop, jazz o classica?”».

KM: «Infatti se noti il programma di stasera evidenzia un legame tra composizioni che sembrano appartenere a un programma classico. O meglio: è classico, ma è anche qualcosa d’altro. L’influenza della musica popolare su Stravinskij o del jazz e del blues su Ravel sono evidenti».

Che pezzo avete scelto come bis?

VM: «Le Canzoni ungheresi di Bartók, una musica completamente popolare».

Nel jazz quello che fa davvero la differenza è l’improvvisazione, che sostituisce la scrittura. Qualcosa di differente dall’approccio strumentale di stampo classico.

VM: «Infatti non mi considero una musicista jazz. E quando suono musica jazz è tutto scritto. In Through the Looking Glass c’è qualcosa di improvvisato, ma poco. Il resto è stato tutto arrangiato da mio marito Matthew Barley».

LM: «Io credo che sia importante presentare visioni differenti. L’essenza del jazz è di non rimanere come è stato scritto, ma di riuscire ad autorizzare visioni differenti di uno stesso pezzo, quindi anche essere suonato da musicisti che hanno una formazione classica. L’idea stessa che sta alla base del jazz è quella di non essere attaccato alla sua cultura di origine, altrimenti diventerebbe un’altra forma di musica classica. Questo non mi interesserebbe. A me interessa invece la musica sperimentale».

Anche a noi.

da «Strumenti Musicali» n251, marzo 2002 © altremusiche.it / Michele Coralli

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