Walkabout & around Timothy O’Dwyer. Australia ’07 [intervista]

Un autunno australiano, a nord, Brisbane, nel sempre soleggiato Queensland. Tutto ruota attorno a Fortitude Valley, i teatri downtown e il WestEnd, centri creativi della città e crescenti punti di forza di ogni realtà artistica australiana.
Cerchiamo quindi di iniziare bene: nella notte è impossibile non frequentare il Forest Cafè, noto locale vegano di cibo e pubblico alternativo nella caratteristica Boundary Street, West End, dove possiamo ascoltare tutto ciò che di più indipendente e free circola in città, dal video di ottima qualità contro la politica governativa – fatto veramente raro nella società australiana – a un imbonitore stralunato che, come intermezzo ad ogni esibizione, parlando come Lupo Solitario al microfono del locale pubblicizza cd e video di John Cage, poi il concorso NoiseMusic, con giovanissimi inventori di ogni possibile manipolazione di oggetti elettrici ed elettronici, poi i b.a.s.t.a.r.d.s (sta per: brisbane anarchists sabotaging the australian representative democracy) gruppo impegnato in attività di editoria e produzioni radiofoniche, sino al fantasmagorico set Sax-Percussivo-Elettronico di Jim Denley, che ricava dai sui strumenti suggestive evocazioni percussive e vocali. Qui abbiamo anche ascoltato Timothy O’Dwyer in una delle sue energetiche improvvisazioni, e qui lo lasciamo per ritrovarlo, in una intervista a lui solo dedicata, alla fine di questa camminata tra le vie della musica di Brisbane.

Una panoramica completa è quasi impossibile, attorno ai teatri e locali downtown e a quelli più innovativi di Fortitude Valley si muovono incessanti ogni tipo di band ed ensemble, troviamo gli Expatriate, che dopo una recente registrazione a Seattle tornano col nuovo album “In the Midst of This”. Poi un omaggio di un bel numero di importanti artisti australiani ai Go-Betweens e alla scomparsa di Gran McLennan, l’album “Write Your Adventures Down”, con David McCormack, chitarrista di Brisbane membro dei Titanic, dei The Polaroids e dei Custards. Si registra un importante ritorno dei Mental As Anything che da 30 anni calcano le scene e che, guidati da Greedy Smith (tastiere, armonica e voce), ripropongono un repertorio che dichiaratamente muove da Muddy Waters a Elvis Costello, Elvis, Ray Charles, per non dire i Beatles, gli Stones e i Beach Boys… Tutti insomma.

Ecco poi i cosiddetti “synth-progr” pioneers: i Trans Am, che si riaffacciano sul mondo discografico col nuovo album “Sex Change”, ispirato dall’ascolto degli Isley Brothers con tutte le loro influenze dal gospel a R&B alll’Hip-hop e R. Kelly. Abbiamo poi The Vasco Era, una band che dallo stato di Victoria sta avendo un buon successo col nuovo album “Oh We Do Like to be Beside the Seaside”, poi da segnalare “Into the Dojo”, il terzo album del gruppo funk/reggae/soul The Black Seeds.
Da notare l’importanza sempre maggiore che la danza contemporanea sta avendo in Australia e a Brisbane in particolare, con la stagione Bell Tower II che presenta lavori con Fez Fa’anana, Elise May, Leah Shelton, Marilyn Miller, Lisa O’Neill, Brian Lucas, Maggie Sietsma, Natalie Weir e Cheng Tsung Lung.

Per la musica sono il Queensland Music Festival e il JWC a farla da padroni. In cartellone troviamo musica di ogni genere, dagli interventi sui Pianoforti Stenway dell’artista figurativa Judy Watson a una nuova opera di Richard Mills, alle musiche di Lai Grandage ispirato a Red Cap di Pat Mackie su temi sociali attorno alla vita in miniera e al rapporto con una visione dignitosa della vita basata su un maggiore rispetto dei diritti.
Poi Mick Harvey, acclamato polistrumentista, produttore, arrangiatore e compositore di musica per film, in una rassegna intitolata “La cosa nostra” che vede protagonisti lo stesso Harvey e uno sterminato numero di “amici” e band come Silver Ray, la bassista Rosie Westbrook, Thomas Wydlay&Friends, The Stu Thomas paradox, Dave Graney&Clare Moore&The Lurid Yellow Mist, l’elettrico chitarrista Cam Butler & the Shadow Love Orchestra.

Ma la lista è ancora lunga, accenno solamente alcuni titoli quali “African Children’s Choir”, “Daorum”, titolo di una serata dedicata ad una esperienza musicale derivata dalla tradizione Pansori, il teatro musicale classico coreano, cui segue “We don’t dance for no reason” ispirato dalla tradizione Papua col giovane e talentuoso jazzista Aaron Choulai al Piano e altri valenti musicisti quali Eamon McNelis tromba, Carlo Barbaro Sax, Shannon Barnett trombone, Tom Lee basso, Rory McDouglas Batteria e il Tatana Village Choir.
Non si può non menzionare “The Dream Catchers” di John Rodgers, questa volta protagonista di una nuova opera di teatro musicale felicemente visionaria, dove lo stesso Rodgers si esibisce alla Direzione, al Piano, Violino e Chitarra assieme alle voci di Megan Sarmandin e Pearly Black, il vocalist spagnolo Manuel Varela, William Barton al Didgeridoo, Genevieve Lacey ai Flauti dolci, Steve Grant tromba, accordion e basso acustico, Cameron Ford alla chitarra e John Parker alle percussioni.

Sul finire del Festival alcune altre serate particolari: il pianista e compositore Michael Kieran Harvey esplora alcuni territori musicali particolari con l’esperto maestro giardiniere Peter Cundal per dare origine a un inedito “Well-Tempered Garden”, dove si ascoltano opere di J. S. Bach assieme ad altre di Stockhausen, Boulez, Wolpe e Babbit.
Quindi un “Orfeo” di C. Monteverdi al Masonic Memorial Temple, dove si esibisce anche il “nostro” Paul Beier, raffinato liutista americano da tempo residente in Italia, “Singsing”, dove 20 performers da Papua, Nuova Guinea e Torres Strait animano l’AIMM (Australian International Music Market) al JWC e alla Brisbane Powerhouse.

Non poteva mancare una serata hip-hop con presenze di DJ, testi in rima e ritmati, graffiti e body-percussion, salsa, l’immancabile festa di scratching e poi la musica con oggetti riciclati di Steve Langton nel suo nuovo spettacolo “Musical Ship”.
Infine abbiamo l’attività della cosiddetta musica contemporanea, strettamente collegata a quella europea e britannica in particolare, con l’Elision Ensemble, ormai protagonista indiscusso della scena musicale australiana e spesso europea, con sede nel bellissimo Judith Wright Centre of Contemporary Arts, che ospita l’IMA (Institute for Modern Arts), un Teatro ben attrezzato, alcuni lofts dove ospitare gli artisti “in residence” provenienti da tutto il mondo, sale prova per Elision e per la Danza, nonché un annesso caffè dove mai si rimpiange un cappuccino italiano.

Qui abbiamo incontrato Timothy O’Dwyer, saxofonista di Elision, a sua volta compositore e protagonista della nuova scena musicale.
Siamo alla vigilia di una sua nuova opera per il Queensland Music Festival: “What Remains”, che debutta proprio nel Teatro del JWC il 20 luglio 2007. Le domande e le risposte entrano subito nel vivo del lavoro di composizione, fortemente orientato alla pratica improvvisativa, che Tim illustra con sicurezza ed entusiasmo.

Tim, stiamo parlando al pubblico italiano della vita musicale a Brisbane, e ora con te ci dedicheremo al tuo ultimo lavoro: What Remains. Quindi: cosa resta?

«E’ innanzitutto una collaborazione tra me, il saxofonista improvvisatore britannico John Butcher e l’ensemble Elision. Un lavoro che combina o esplora notazione e improvvisazione, prendendo spunto dai due diversi background: John nasce come improvvisatore puro, mentre la mia esperienza è mista, di esecutore di musica in notazione tradizionale e di improvvisatore.
Sul palco abbiamo due quartetti costituiti da musicisti di Elision che io stesso dirigo. Il “mio” quartetto esegue al cinquanta per cento musica notata tradizionalmente e improvvisata, “l’altro” quartetto, guidato da John, è totalmente improvvisato con un canovaccio di notazione fatta di istruzioni ed elementi grafici. Tutti e due i quartetti interagiscono anche con una parte elettronica eseguita da Michael Hewes. Stiamo sperimentando la convivenza tra le due diverse prospettive».

Da cosa nasce l’idea per What Remains?

«Ho ascoltato ed osservato molti musicisti nelle loro improvvisazioni, più spesso improvvisatori della scena british, Derek Bailey, Butcher e Company, cercando di capire perchè ciò che udivo fosse una vera e propria lingua, un linguaggio, come un sistema prevedibile o organizzabile. Quindi ho provato a trascrivere ciò che sentivo e da lì costruire un’altra musica, che è poi diventata “Gravity” – lavoro eseguito proprio qui l’anno scorso e poi al Festival di Huddersfield – sempre con John Butcher, e che possiamo considerare il vero back ground di What Remains. Ho trascritto e ricomposto per un altro organico il materiale improvvisato da John, e di nuovo lui suona su quel materiale, un gigantesco feedback».

Il passaggio a What Remains è stato quindi graduale, questo lavoro porta i segni del precedente ma mi sembra esplori anche nuovi territori.

«Sì, il feedback continua, ad esempio ho trascritto e rielaborato alcune improvvisazioni di John in Gravity e ne ho ricavato una parte per Clarinetto e Clarinetto Basso, e questa è musica scritta tradizionalmente e i musicisti eseguono ciò che è scritto».

Il quartetto di John Butcher è composto da Tromba, Oboe, Viola e Sax, il tuo da Trombone, Clarinetti, Percussione e Sax. Tutti parteciperanno a questo loop che viene da lontano e che continuamente si evolve. Una sorta di ritorno alla notazione scoprendovi nuove possibilità di lettura e improvvisazione comuni?

«Esattamente, anche nella fase di scrittura il lavoro in coppia continua, io cerco di evidenziare alcuni aspetti e trascriverli, ne discutiamo e troviamo le soluzioni, e questa è una fase della progettazione che io esprimo poi anche in una notazione».

Succede a volte che anche l’atto dello scrivere suggerisca idee diverse da quelle inizialmente immaginate. Cioè: nella tua esperienza, lavori in una sorta di improvvisazione anche durante la scrittura, che richiederà poi molta elasticità mentale per essere trasformata e magari consolidata?

«Sì, questa è un po’ strana, ma è vero, il momento della scrittura è comunque “dentro” e spesso mi spinge all’improvvisazione. Le reazioni che ti portano a improvvisare avvengono durante l’ascolto. Scrivere, per me, è più una sorta di mappatura. Vedo l’idea di sviluppare le idee più rivolta al mondo delle strutture musicali, un lavoro più lento, rivolto agli opposti – macro strutture o particolari – ma dilatato nel tempo. Poi, appena tutto viene anche solo “provato”, ecco la verifica. Per fare questo, come dicevi e come abbiamo già sperimentato assieme, occorre una grande flessibilità».

In What Remains lavori sempre sul confronto o alternanza, per dirla in maniera classica, tra “solo” e “tutti”?

«In un certo senso è così. Qui, oltretutto, con i due quartetti, o tutti quanti si separano o si ricongiungono a seconda dello sviluppo del materiale, o abbiamo alternanze di soli e tutti all’interno di un singolo quartetto. E’ come se avessimo due Tutti e due Soli, con ogni loro possibile combinazione».

Immagino che, sul palco, la mappatura di cui parlavi per forza di cose muti spesso. Alla fine riporti i cambiamenti sulla partitura? Da un lato sarebbe molto tradizionale ritoccarla, ma forse ancora di più lo sarebbe lasciarla invariata, in una sorta di primato del testo.

«Eh eh …sì, lo faccio, cioè, dipende…insomma è un po’ come nel Jazz, dove io stesso arrivo talvolta con pezzi senza un “arrangiamento” o sequenza, quasi nulla di fissato oltre ad un generico feeling e colori, sino a che l’ordine viene fuori dal gruppo e riconosci che il tal passaggio “funziona”, it works, e così si stabilisce la posizione di ogni cosa, dove isolare le improvvisazioni, e quello è il pezzo e, in questo senso, diciamo che è “fissato”».

Bene, questo genera spesso ripensamenti e prese di coscienza nel compositore. Tu chiedi ai tuoi musicisti di improvvisare nel “tuo” stile?

«Certo, questo è importante. Ad esempio, nel lavoro dell’anno scorso, Gravity, tre dei quattro movimenti erano notati tradizionalmente e uno aveva ogni sezione contrassegnata da un numero. Il direttore poteva decidere la sequenza in una sorta di gestione spontanea della forma. Ebbene, ensemble e direttore hanno organizzato quella parte eseguendola sempre allo stesso modo e senza la spontaneità che richiedevo. Ma funzionava così bene che cambierò la partitura e scriverò proprio quella successione.
In What Remains ogni esecutore ha parti scritte e altre improvvisate in continua alternanza. Durante le improvvisazioni hanno due tipi di istruzioni: imitare il leader del loro quartetto con suoni totalmente differenti da me suggeriti (ad esempio il Clarinetto può imitare con i soli rumori di chiavi ciò che sta suonando John sul Sax), oppure improvvisare in coerenza con le parti scritte, cercando di lavorare sul mio linguaggio improvvisando cose che io non ho scritto».

Anche questo, in un certo senso, sta diventando “tradizionale”. Lo sentiamo in molte produzioni di musica improvvisata in cui il gioco è subito scoperto: una improvvisazione leader e attorno ad essa una serie di echi, richiami, ripetizioni e imitazioni. Cosa ne pensi?

«In questo caso, i musicisti hanno fondamentalmente un background da esecutori e non da improvvisatori, e io penso sia un vantaggio: non si portano dietro una “storia” di improvvisazioni e di cose già fatte o sentite, tutto succede proprio in quel momento, e loro stessi si sentono più a loro agio non dovendosi inserire in un genere particolare».

E lavorando in questo ambito con musicisti tradizionali, hai mai avuto l’impressione che considerassero il risultato come un prodotto di diverso livello, di diversa serietà?

«Sì, talvolta, e penso sia niente di più che una insicurezza, non che loro non siano in grado di farlo. Pensano semplicemente di non essere capaci, e questo li porta su un piano difensivo. Tutta questa libertà li manda nel panico. E’ importante suggerire delle strutture e punti fermi, dar loro materiale su cui lavorare e tu per primo lavorarci, ma se dici “questa è una nota, lavorateci per mezz’ora”, ovvio che sul palco si facciano prendere dal panico».

In queste musiche abbiamo quasi sempre la presenza dei loops, che caratterizzano fortemente le musiche di alcuni musicisti e addirittura di generi musicali. Pensi sia inevitabile, volendo fare della musica improvvisata?

«E’ una questione complessa, è vero. Certo però dipende dalla natura del loop, abbiamo infinite possibilità su una ripetizione, quante volte, quanto rapida, quanto forte, continuamente emergono domande di tipo compositivo che non hanno una risposta, allora o è il compositore che risponde a queste domande, o è l’esecutore mentre improvvisa».

Riguardo alla tecnologia: sei completamente autonomo, con pedali ed effetti vari o ti appoggi a una Regia che segua l’esecuzione e vi partecipi attivamente?

«Sinceramente, non ho mai avuto il tempo di sviluppare un set da utilizzare da solo, e generalmente lavoro con un Tecnico. In questo progetto, in particolare, Michael Hewes tiene a bada il mix e il bilanciamento dei due quartetti, utilizzando poi anche alcuni processori di segnale progettati in MAXmsp».

Anche questo è parte del “mapping” di cui parlavamo o è affidato totalmente al Tecnico (che in questo caso, essendo Hewes, potrebbe anche essere una gran bella idea)?

«Sì, assolutamente anche questa parte è inclusa nella mappatura, la fisseremo in qualche modo, ma in questo caso ci sarà un’area libera nella quale Michael potrà lavorare e improvvisare sui suoni».

E i musicisti potranno reagire anche alla trasformazione elettronica del suono? Intendo dire reagire non solo al suono dell’improvvisatore leader ma anche al suo delay, o pitchshift o panning o altro effetto che il tecnico vorrà applicare?

«Sì, potrebbe succedere, sarebbe interessante..do you wanna come, you should join please…».

Siamo entrati subito nel vivo degli aspetti compositivi e l’argomento ci ha trascinati. Ora, per chiudere, raccontaci quali saranno i prossimi passi della tua attività.

«Ho alcune idee, ma il lavoro di progettazione e di contatto con i musicisti è ancora all’inizio. Intanto prosegue l’attività col TimO’Dwyer Jazz Trio, col quale facciamo free jazz e abbiamo sino ad ora prodotto una buona discografia (vedi: www.timodwyer.com) e poi una parte di tempo sarà occupata dall’insegnamento all’Università in Singapore, dove seguo il dipartimento jazz».

Quindi aspettiamo il debutto di What Remains, con Timothy O’Dwyer alla guida dell’Elision Ensemble che vede tra i protagonisti di questo nuovo lavoro, oltre all’ospite londinese John Butcher, alcuni dei suoi elementi più di spicco quali il virtuoso Graeme Jennings al Violino, Peter Veale all’Oboe, Erkki Veltheim sempre sorprendente alla sua Viola, Tristram Williams Tromba, Ben Marks Trombone, lo splendido Peter Neville alle Percussioni, un Richard Haynes sempre in ottima forma così come spesso lo incontriamo sulle scene europe al suo Clarinetto basso, il già citato Michael Hewes al Mixer e Live Electronics e, per finire, il direttore artistico, Daryl Buckley, che come sempre non si risparmia nella supervisione e coraggio delle scelte. Buon lavoro a tutti, guys.

settembre 2007 © altremusiche.it

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