Wayne Horvitz & Sweeter Than The Day, The Robin Holcomb Band [Teatro Manzoni, Milano, 22 febbraio 2004]

Michele Coralli

Wayne Horvitz, già leader di ensemble quali Zony Mash, The President, fondatore e co-leader della New York Composers Orchestra, membro dei Naked City di John Zorn, collaboratore di Butch Morris, Bill Frisell, Bobby Previte e Kronos Quartet, potrebbe solamente far valere questo curriculum per farsi accettare in qualsivoglia circolo di affiliati post-avanguardisti. È allora con le migliori aspettative di chi si aspetta fuochi e fiamme da una sua fugace apparizione a Milano, che ci siamo spinti nella consueta domenica mattina in quel di via Manzoni, nel teatro del presidente.

In attesa della sua comparsa, scambiamo chiacchiere con chi si è avventurato qui a scatola chiusa: “Ma che musica fa?” – “Fusion” – “A me piace Jarrett, è molto diverso?” – “Oddio, mi sa di sì, credo che sia molto più contaminato, forse anche più violento!”. Insomma è domenica mattina, non ci sentiamo pronti per dei commenti a freddo. Poi leggiamo il programma: “Se mi volete rendere infelice, usate la parola fusion per descrivere la mia musica. E se volete aggiungere un insulto, metteteci la parola eclettica.” Ecco, come prima cosa l’abbiamo reso infelice. Chissà poi se a eclettico, preferisce il termine contaminato? Vabbè, non c’è male come inizio…

Foto: Michele Coralli

Ma poi si parte davvero: sul palco Horvitz all’Hammond, dall’aroma dolcemente acid jazz, dall’altra parte la moglie Robin Holcomb al pianoforte e voce; in mezzo il chitarrista Timothy Young, che più friselliano non si può, il contrabbassista Tim Luntzel e il batterista Andy Roth, presentati come due fenomeni, ma assolutamente pallidi. Sweeter Than The Day è il titolo del set e un certo appiccicume dolciastro ci coglie nelle prime manciate di canzoni della Holcomb, dalla tremula voce gutturale, incapace di cambiare registro, ma costantemente sulla stessa frequenza per tutto il concerto. C’è un po’ di tradition, centrifugata in salsa postmoderna, un po’ di Dylan, un po’ di blues, ma nel complesso una grande quantità di canzoni anemiche, con pochi slanci. Le cose migliori arrivano quando moglie e marito si scambiano i ruoli, anzi quando la moglie scompare e il marito si mette al piano per elargire qualche momento impalpabilmente più sghembo. Ma l’approccio moderato prevale, il tema morriconiano minaccia continuamente di fare la sua comparsa e una certa rilassatezza ha il sopravvento, anche nell’assente rapporto con il pubblico, sempre generoso nei confronti di un artista americano. Un’ora e mezza scivola via tra la delusione di chi si aspettava qualche tema tagliente, e la soddisfazione di chi invece non voleva rischiare troppo. Massì, in fondo è sempre piacevole anche qualche virata bebop e nuovamente qualche canzone a cori armonizzati per terze per addolcirci questa grigia domenica milanese. Approposito, che si riferisse proprio a questo Horvitz, quando ha trovato il titolo del set?

Che siamo di fronte al più “convenzionale degli sperimentatori newyorkesi” si può anche accettarlo, ma che si arrivi a parlare di “avanguardia bianca” allora qui a diventare infelici siamo noi, perché stride il confronto con un tipo di approccio “nero”, che non può essere altri che un ben più importante free dai ben più influenti apporti. Invece tutta quella scena newyorkese da cui, in tempi e modi diversi, sono usciti personaggi come il nostro, Caine, Zorn, Berne, Sharp, Kronos, Frisell, tanto per mettercene dentro un po’ alla cieca, sta mostrando ora tutti i suoi limiti artistici. L’eccessiva vicinanza con certo rock americano vuoto e banale ha finito per appiattire molti di questi artisti su posizioni prevedibili. Forse hanno contaminato troppo, forse troppo poco, o forse invece hanno esaurito le scorte, ma l’impressione sempre più evidente è che il Downtown appaia oggi sempre più bollito.

febbraio 2004 © altremusiche.it / Michele Coralli

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